Una regalità paradossale

Omelia del 8 novembre 2020 (Gv 18, 33c-37)

Una regalità paradossale

Gesù ha sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti di chi voleva proclamarlo re.  Pensate ad esempio a quel che accadde dopo la moltiplicazione dei pani, dopo che Gesù ebbe saziato la folle con pane buono, abbondante, gratuito. L’evangelista Giovanni ci dice che la folla si strinse intorno a lui con il preciso intento di farlo re. 

E d’altra parte chi meglio di Gesù meritava questo titolo: era stato lui a prendersi cura di loro, era stato lui a farsi carico del loro bisogno: non è questo che devono fare i re? Prendersi cura dei loro sudditi, dar loro da mangiare, proteggerli delle insidie, adoperarsi per il bene di tutti, anche, anzi soprattutto di chi è povero ed emarginato. Gesù aveva fatto ciò che i loro re e governanti avrebbero dovuto fare e non hanno fatto, si era comportato nei loro confronti come si sarebbe dovuto comportare un sovrano nei confronti del proprio popolo. Per questo la gente lo acclama re: vede in lui un uomo generoso, disponibile, responsabile, attento, non interessato solo ai propri guadagni o alla salvaguardia del proprio potere, come spesso accade anche oggi a tanti uomini di governo che pure pretendono il nostro rispetto e la nostra fiducia. Gesù appare ai loro occhi come il re che non hanno e che vorrebbero avere. Che cosa fa, però, Gesù di fronte alla folla che lo acclama re? Fugge, scappa, si ritira in un luogo solitario, si sottrae. La figura del re non lo identifica, seppure è di un re benevolo e buono che stiamo parlando. La sua identità non trova corrispondenza in nessuna rappresentazione regale.

A confermare questa diffidenza di Gesù si potrebbe citare un altro episodio narrato dai Vangeli, un episodio conosciuto da tutti: Gesù è in viaggio con i suoi discepoli verso Gerusalemme per celebrare la festa di Pasqua. Non appena si diffonde la notizia del suo arrivo una grande folla si raccoglie davanti alla porta della città con palme e ulivi in mano per acclamarlo re d’Israele: La folla di Gerusalemme identifica Gesù come il legittimo erede di Davide, l’inviato di Dio, colui che è giunto a liberare il popolo dell’alleanza restaurando l’antico regno.

Questa volta Gesù non può scappare come fece dopo la moltiplicazione di pani. E allora arrivato alle porte della città, vedendo un puledro d’asina, vi salì sopra e così, in groppa a d un asino, fece il suo ingresso nella città santa. Quello di Gesù è un gesto profetico di grande potenza intenzionato a ribadire ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la missione del Figlio di Dio non è restaurare un regno mondano, non è ingaggiare guerre contro i nemici di Israele, non è rafforzare l’identità nazionale del popolo di Dio, non è sedere su un trono di gloria, servito e riverito dai sudditi, ad esercitare il proprio potere di dominio su uomini e nazioni.  Ancora una volta Gesù rifiuta per sé stesso il titolo di re e lo fa con tutta la fermezza e la consapevolezza possibili.

C’è, in tutto il vangelo, un solo momento, in cui Gesù di fronte alla domanda “tu sei re” non replica con secco “no”, lasciando intendere che anche l’immagine regale possa servire ad identificare in qualche modo la sua persona e la sua missione.

È il momento della passione e della croce. E si capisce perché. Perché a quel punto non c’è più alcuna possibilità di equivoco. Davanti ad un uomo nudo, trattato come schiavo, torturato, flagellato, incoronato di spine e appeso al legno della croce non c’è ormai più modo di rischiare di confondere la regalità di Dio con la regalità dei potenti della terra, il regno di Dio con i poteri di questo mondo. 

Svelando la sua regalità sulla croce Gesù ci dice che è possibile rileggere la sua vita e la sua missione in termini di regalità e che è possibile parlare di ciò che egli è venuto ad inaugurare con la sua missione in termini di regno, ma solo a condizione di abbandonare tutte quelle precomprensioni che ci fanno immaginare il regno di Dio come fosse un calco dei regni mondani.

Nel dialogo serrato del pretorio dove Gesù e Pilato si guardano negli occhi e si parlano sono uno davanti all’altro, a confronto, due modi diversi di essere re.

Quello di Pilato che è il modo di essere re dei re di questa terra, è quello che si costruisce sul potere di dominare gli altri, quello che si alimenta con l’antagonismo e l’opposizione, quello che si rafforza con il rendere servi e schiavi chi ci sta davanti. Quello di Gesù, al contrario, si costruisce sul potere di dare la vita, si alimenta con la mitezza e il dialogo e si compie non nel rendere servi ma nel farsi servi.

Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un potere tra i poteri di questo mondo, in concorrenza tra loro. Il Regno di Gesù è vita, è pace, giustizia è dono incondizionato di sé nell’amore.

Oggi celebriamo la festa di Cristo re dell’universo. E questo ci dice senza ombra di dubbio che Gesù è re: nessuno lo può mettere in discussione. La vera domanda però è un’altra, e la risposta non è affatto scontata: quale regalità dobbiamo riconoscere in lui? E quale regno siamo chiamati a costruire giorno dopo giorno se vogliamo essere fedeli alla sua testimonianza?

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