
Nella biografia di Gesù raccontata dai vangeli, del tempo che Gesù visse a Nazareth con la sua famiglia si dice poco e nulla. Nulla sappiamo di quel che Gesù fece in quegli anni, dei luoghi che frequentò, delle sue relazioni, delle sue occupazioni quotidiane.
Perché viene da chiedersi?
Una risposta possibile potrebbe essere questa: nulla si dice di quel periodo della vita di Gesù perché non c’è nulla da dire! Nulla, s’intende, che valga la pena di essere raccontato, nulla che sia degno di nota.
Non so se sia effettivamente così e non so nemmeno se sia questa la ragione del silenzio che ci preclude l’accesso ad una porzione così consistente della storia personale di Gesù, quel che è certo è che una lettura come questa calza a pennello con il nostro modo di guardare la realtà.
Facciamo un esempio. Poniamo che qualcuno ci chieda di fare uno sforzo di sintesi e di dire quali sono i momenti che riteniamo più importanti nella nostra vita. Su cosa cadrebbe la nostra scelta? Con tutta probabilità, cadrebbe sui tanti o pochi momenti che per la loro importanza hanno lasciato una traccia nella nostra memoria, su tutti quegli accadimenti che, nel bene e nel male, hanno dato una svolta alla nostra vita, costringendoci ad un cambio di passo o di direzione.
E questo, ovviamente, a discapito di tutto quel magma di azioni, di parole, di silenzi, di emozioni che sono nascoste dietro le pieghe di ciò che si ripete sempre uguale, ma che, di fatto, intrecciano la trama della vostra vita.
È il riflesso della cultura che tutti respiriamo: una cultura che ci ha abituato a considerare degno di nota solo ciò che produce risultati, ciò che fa notizia, ciò che, per via della novità che porta con sé, si staglia sopra la linea del “sempre uguale”. Lo vediamo di continuo: nel mondo in cui viviamo una cosa ha valore solo se è in grado di sottrarsi all’ordinario. E, per contrappunto, tutto il resto, ovvero ciò che è ordinario, comune, usuale, non è che noiosa e insopportabile banalità.
Ecco perché la festa che oggi celebriamo è così importante. Ecco perché la festa della sacra famiglia, con quel suo fare memoria dell’immersione di Gesù nell’umanità nascosta e ordinaria di Nazareth, rappresenta oggi per noi un richiamo irrinunciabile.
Perché ci offre un punto di vista nuovo sulle cose, perché, controtendenza, riabilita ai nostri occhi il tempo ordinario mostrandocene il valore incommensurabile, perché ci abilita a vedere bellezza anche in ciò all’apparenza sembra del tutto banale.
La festa della sacra famiglia di Nazareth ci dice che la quotidianità della vita con i suoi ingranaggi nascosti e con le sue ripetizioni ricorrenti non è affatto un tempo morto, o un tempo inutile, ma è piuttosto la fibra robusta che dà consistenza alla vita, il tessuto che veste il nostro cammino nel tempo, la brace sotterranea in cui vengono forgiate, a caldo, le nostre identità.
Per questo motivo non ci è permesso di sottovalutare i trent’anni di Gesù a Nazareth . È vero: non sappiamo niente di quel tempo della vita di Gesù, ma il fatto di non sapere niente di quel tempo non significa che esso non sia importante. Il fatto che quegli anni siano stati vissuti nell’anonimato, nascosti dietro una quotidianità che non fa clamore, non significa che essi nella storia di Gesù non abbiano giocato un ruolo decisivo.
Anzi, ad essere onesti, dovremmo dire che è vero il contrario: i trent’anni di Nazareth, vissuti da Gesù con la sua famiglia, sono stati per lui uno straordinario laboratorio di umanità e di fede.
In quegli anni Gesù ha imparato l’obbedienza e la libertà, l’amore e il rispetto, la responsabilità e la fiducia. Ha imparato a conoscere gli uomini, ad apprezzarne la bellezza e insieme a riconoscerne la fragilità; ha imparato un linguaggio per dire Dio e per parlare con lui; ha conosciuto il valore dell’ospitalità, la tenacia del lavoro, la fatica della convivenza, la dolcezza degli affetti.
Ora, mi chiedo: se quegli anni vissuti da Gesù nell’anonimato, impastati di quotidiano e di abitudinarietà, sono stati per lui così determinanti, non dovremmo anche noi adoperarci in ogni modo per riabilitare la nostra quotidianità? Non dovremmo imparare ad amarla nonostante la sua banalità, invece di guardarla con disprezzo e sufficienza?
Se gli anni vissuti da Gesù in totale immersione nella vita famigliare sono stati ciò che ha dato una forma al suo modo di essere e di guardare il mondo non dovremmo anche noi tornare a scommettere e ad investire sulle nostre famiglie, adoperandoci perché tornino ad essere, anch’esse, laboratori di umanità e di fede a garanzia di un futuro migliore per tutti?