
Le nozze di Cana sono un segno e una provocazione. E, Giovanni, autore di questa straordinaria pagina di vangelo, ne è perfettamente consapevole nel momento in cui ci dice che questo di Cana di Galilea è il primo dei segni compiuti da Gesù. Giovanni non parla di miracoli, ma di segni…
Qual è la differenza? I miracoli sono gesti straordinari che manifestano l’autorevolezza e la potenza di chi li compie. In ogni caso, i miracoli sono azioni che colpiscono gli occhi.
I segni, invece, sono azioni che alludono, che rinviano a qualcos’altro, che rimandano ad una realtà che appare nascosta sotto il velo del non immediatamente visibile. I segni sono azioni che fanno pensare; non colpiscono gli occhi, ma mettono in moto l’intelligenza e il cuore.
Le nozze di Cana sono un segno perché attraverso di esse Gesù ricorda ai suoi interlocutori, che sono i giudei, ma che potremmo essere anche noi, lettori e credenti di oggi, qualcosa che non è immediatamente visibile e che forse anche noi abbiamo dimenticato, ovvero che l’alleanza con Dio prima ancora di essere una questione di riti, di osservanza di comandamenti, di insegnamenti da mandare a memoria, è una questione di amore.
Un amore che ha la stessa intensità dell’amore che abita il cuore di un uomo e di una donna quando si guardano negli occhi per promettersi fedeltà eterna, e per consegnarsi l’uno all’altra in una reciprocità che non conosce compromessi.
L’alleanza con Dio è un’alleanza nuziale, dice Giovanni, ed è un’alleanza nuziale che deve continuamente rinnovarsi e alimentarsi per non perdere la sua intensità e la sua qualità.
Detto con le parole di Giovanni: è un matrimonio che non deve rimanere senza vino! Non mi dilungherò a fare l’elogio del vino, ma è chiaro quale sia il suo significato e perché venga evocato nel contesto di questo racconto di nozze: il vino è simbolo di passione, di gratuità, di incondizionatezza, di sovrabbondanza, di dismisura. Tutte cose che non possono venire a mancare in un’alleanza nuziale perché sia trasparenza cristallina di un amore autentico e vitale.
Cose che non devono mancare e che invece spesso ci perdiamo per strada. Se le sono perse per strada gli uomini e le donne di Israele che pur chiamate ad un’esperienza di intimità e di confidenza con il loro Dio hanno finito per ridurre la relazione con lui ad una sorta di commercio cultuale di prestazioni e sacrifici, vuoto di passione e di emozione.
Ma passione, dismisura, gratuità, purtroppo, ce le perdiamo spesso per strada anche noi …
Ce le perdiamo quando lasciamo che l’abitudine a lungo andare spenga i nostri desideri, quando permettiamo al tempo che passa di sbiadire i nostri sentimenti, quando consentiamo alla nostra esperienza di ridurre ogni cosa ad un “già visto e già fatto” che dissolve lo stupore e riduce la convivenza a pura funzionalità.
Ecco allora dove sta la provocazione, quella di Gesù e quella di Giovanni che ha voluto consegnarci questo racconto: nel ricordarci che mai in una relazione devono venire a mancare l’amore e la passione e che pertanto questo amore e questa passione vanno alimentate giorno dopo giorno, rinnovate e rilanciate come in un inizio che si ripete ininterrottamente per non correre il rischio di perdere l’incanto che l’ha generato…
Noi purtroppo non siamo molto diversi dagli Israeliti a cui Gesù rimprovera l’aver ridotto l’alleanza con Dio ad un culto senza vita e senza amore. Anche noi abbiamo finito per riempire d’acqua le giare del tempio, anziché di vino.
Anche noi ci troviamo, non di rado, a constatare di aver ridotto la nostra fede ad una pratica formale, ad una ripetizione di gesti meccanici e abitudinari, ad una referenza anagrafica che non ha nessuna ricaduta nella vita quotidiana
Anche per noi l’alleanza con Dio è divenuta un matrimonio senza amore. E senza quella vitalità e quella capacità di rigenerazione che solo l’amore rende possibili.
Non è questa l’eredità drammatica che questo tempo di pandemia ha caricato sulle nostre spalle, portando a evidenza un processo che forse era già in atto da tempo?
È bastato che un virus ci costringesse in casa e ci privasse per qualche tempo della possibilità di andare a Messa per convincerci che forse andare a Messa non è così urgente e che si può vivere anche senza. È bastato che un evento tragico come la pandemia modificasse forzatamente i tempi della nostra vita, spezzando l’inerzia delle nostre abitudini, per mettere in crisi la nostra fede, le nostre convinzioni e soprattutto la nostra pratica religiosa.
In molti, ai tempi del primo lock-down, hanno sostenuto che privare i fedeli della possibilità di andare a Messa e celebrare il culto era da considerarsi un delitto orribile e in nome della libertà religiosa e del riconoscimento del valore della dimensione spirituale della vita si sono fatti proclami altisonanti, si sono sferrati attacchi feroci, si sono prodotte teorie pretestuose.
Ora, da tempo, la costrizione è stata tolta, da tempo non viviamo più il dramma della privazione forzata, eppure le chiese continuano ad essere vuote.
Non è che il problema, mi chiedo, più che nelle limitazioni e nelle costrizioni che ci giungono dall’esterno, sta in una religiosità diventata abitudinaria e senza passione. In una mancanza di vitalità che ci corrode dal di dentro?
Non è che anche noi come a Cana di Galilea abbiamo bisogno di vino?