
“Fate questo in memoria di me”. Questo è il comando che Gesù consegna ai suoi discepoli al termine della sua ultima cena, prima di morire: fate questo in memoria di me.
Richiesta che la chiesa ha voluto onorare fin da subito, riproponendo a cadenza costante e regolare una celebrazione che fosse la memoria rituale e sacramentale di quanto Gesù fece e disse la sera in cui mangiò la sua ultima e definitiva Pasqua con i suoi.
Questa celebrazione è la stessa che ancora oggi scandisce i tempi della nostra vita cristiana: è la celebrazione dell’Eucarestia. Ogni volta che noi celebriamo l’Eucarestia facciamo memoria di quanto Gesù fece in quella sera, ripetiamo le parole con le quali Gesù si fece dono per la nostra salvezza, riviviamo il gesto con il quale egli si consegnò alla morte per noi. Nella celebrazione dell’Eucarestia il tempo si accorcia, il passato diventa presente, si stabilisce una misteriosa contemporaneità tra Gesù che spezza il pane e la vita di ciascuno di noi.
Ma è davvero questo che accade nelle nostre celebrazioni? A guardarle con attenzione non si direbbe.
Certo ripetiamo le stesse parole che Gesù pronunciò quella sera, spezziamo il pane come fece lui, condividiamo il pane in segno di comunione, come lui, ma basta questo per dire che facciamo memoria di Gesù? Basta rievocare lo scenario dell’ultima cena nel contesto di una ritualità che rimanda alla prassi delle antiche comunità cristiane per poter dire che ne riviviamo la memoria sacramentale?
Ricorderete tutti l’esperienza di Corinto e le parole durissime che Paolo rivolse alla sua comunità che si era riunita per celebrare la cena del Signore: “voi mangiate e bevete la vostra condanna”.
Qual è la colpa che affligge la comunità di Corinto? Non si è forse riunita per spezzare il pane nel nome di Gesù? Non ha forse adempiuto al comando di Cristo che chiede di perpetuare la memoria sacramentale di quell’ultima cena? Si, ma portando in quel celebrare il segno di una profonda incoerenza. Paolo constata che c’è una evidente incoerenza tra ciò che la comunità celebra e ciò che la comunità vive.
Celebra la cena del Signore che è segno di comunione e di ospitalità, ma la comunione e l’ospitalità non riflettono il vissuto concreto della comunità. Dentro la comunità si respira tensione, opportunismo, esclusione, indifferenza. E la traccia evidente è che, ritrovandosi per spezzare il pane nel nome di Gesù, nella cena conviviale che segue la “fractio panis”, pur sedendo alla stessa tavola, i ricchi mangiano e bevono fino alla nausea e i poveri fanno la fame.
La memoria di Gesù, è questo che ci lascia intuire Paolo, è sì affidata alla memoria sacramentale, ma non può non avere un suo riscontro concreto anche nella testimonianza della vita. Non può non determinare l’assunzione di uno stile che è lo stile di Gesù e traspare chiaramente dal gesto con cui egli condivide il pane con i suoi.
La domanda che dobbiamo porci è, quindi questa: che cosa vuol dire per noi oggi fare memoria di Gesù? Qual è lo stile che dobbiamo fare nostro perché le cose che facciamo e diciamo siano riconoscibili come memoria viva di Gesù?
Torniamo a ciò che Gesù fece nella cena che mangiò per l’ultima volta con i suoi discepoli. Ciò che Gesù fece è anzitutto un gesto di comunione.
Mangiare insieme, sedere alla stessa tavola, condividere lo stesso cibo sono segni di comunione. E riflettono un modo di essere, uno stile di vita che Gesù ha testimoniato lungo tutta la sua esistenza e di cui noi abbiamo traccia laddove i vangeli ce lo descrivono mentre banchetta con i farisei, mentre mangia con i pubblicani e i peccatori, mentre condivide la tavola con i suoi amici.
Se dunque è il desiderio di comunione ciò che caratterizza la vita di Gesù e che l’ultima cena attesta come compimento della nuova alleanza, se è questa volontà indistruttibile di comunione tra Dio e l’uomo ciò che Gesù esprime con il suo gesto profetico, allora voi capite che non c’è altro modo di onorare la sua memoria se non diventando uomini di comunione.
Comunione con lui, anzitutto. Mangiando di quel pane, che è la sua presenza reale, noi ci assimiliamo a lui, diventiamo con lui una sola cosa, diventiamo lui.
Comunione con il Padre. Dimorando nell’amore di Cristo, ovvero nell’amore del Figlio, noi abbiamo accesso all’intimità di Dio e possiamo riconoscerci e vivere come suoi figli.
Comunione tra di noi. L’intimità con Gesù, infatti, non ci rende solo figli del Padre celeste, ma fratelli insieme gli uni degli altri. Senza l’assunzione di questa nuova e indistruttibile fraternità, alimentata non dal sangue, ma dalla fede; senza l’assunzione di questa dinamica di comunione, che esige accudimento, perdono, ascolto e dialogo con i fratelli, noi non potremo mai essere realmente “memoria” di Gesù.
L’ultima cena, così come ce la descrivono i vangeli, non è però solo segno di comunione. Il gesto che Gesù compie è prefigurazione della croce e testimonianza di un amore incondizionato, a Dio e all’uomo, che accetta di spingersi “fino alla fine”.
“Li amò sino alla fine“: così l’evangelista Giovanni introduce i racconti della Passione e della morte di Gesù. Il gesto che Gesù compie è la ratifica di una volontà di alleanza che si consuma nel sacrificio di sé stesso che Gesù, vero Sommo Sacerdote, direbbe la lettera agli Ebrei, offre al Padre “per noi” e per la nostra salvezza.
Ciò che l’eucarestia rende presente, ciò che questo pane spezzato e questo vino versato rendono manifesto è il “per noi” di Dio che, amandoci incondizionatamente, ci mostra la via che conduce alla pienezza della vita.
“Fate questo in memoria di me” dunque non è impresa impossibile, se avremo la forza e il coraggio di lasciare che nelle nostre vene scorra la potenza vitale dell’amore crocifisso. Se saremo capaci di vivere per gli altri, anziché per noi stessi e saremo disponibili a “sacrificare” la nostra vita, ovvero a renderla sacra attraverso l’esperienza dell’amore.