Una storia rovesciata

Omelia del 22 agosto 2021 (Lc 7, 1b-10)

Una storia rovesciata

La storia che le letture di oggi disegnano davanti ai nostri occhi è una storia capovolta. 

Una storia rovesciata, perché una storia dove a credere sono i pagani, mentre i figli della promessa, quelli che appartengono al popolo dell’alleanza e hanno ricevuto in dono la fede, si mostrano sorprendentemente insensibili alla parola di Dio, non può che essere una storia rovesciata. 

A pensarci bene, però, l’espressione “storia rovesciata” non è così calzante come sembra: dice qualcosa di vero, certamente, ma sotto certo profilo è anche ingannevole. 

Dice qualcosa di vero perché mette in evidenza il carattere paradossale di questa inversione di ruoli tra credenti e non credenti; è ingannevole perché parlare di storia rovesciata lascia supporre che nella realtà, nell’ordinario dispiegarsi della vita, le cose vadano in una direzione opposta a quella descritta e questo non è affatto vero. 

Lo scenario che le scritture, oggi, descrivono, per quanto paradossale sia, non descrive uno stato d’eccezione, descrive la normalità.

La normalità che è sotto gli occhi del profeta Geremia quando vede la città di Gerusalemme devastata dalla furia degli eserciti di Babilonia a motivo dell’incredulità di Israele. 

La normalità con cui deve misurarsi Paolo quando, a fronte di un ingente e appassionato lavoro di evangelizzazione, si trova a dover constatare indifferenza e freddezza nei confronti dell’annuncio cristiano proprio da parte di coloro che dicono di essere i figli della promessa. Mentre i pagani, i greci, i figli di nessuno si aprono alla fede.

Le sue parole sono quasi commuoventi. Dicono di un uomo sinceramente sbigottito, incredulo, che non riesce a capacitarsi di quanto vede. “Forse non hanno udito?” si chiede. Ma egli sa che la voce dei testimoni del vangelo è corsa per tutta la terra fino a raggiungere gli estremi confini del mondo. Perché, dunque, Israele non ha compreso? Che cosa gli ha impedito di aprire il cuore alla voce di Dio?

Ora, che ci piaccia o no, questa è anche la nostra normalità.

La normalità di una società che si dice cristiana dove però il termine “cristiana” è ormai solo una qualifica formale di scarsa importanza; la normalità di una cultura che ancora si dice ispirata ai valori cristiani, ma dove il vangelo non sembra più essere di casa. 

È la normalità di credenti che hanno perso la bussola della fede, di credenti che, intrappolati in una rete di dogmi, di tradizioni e di consunte pratiche religiose hanno smarrito la freschezza del vangelo. È la normalità di comunità che si sforzano di vivere la fede, ma, incapaci di stare al passo coi tempi, finiscono per vivere di nostalgia evocando la gloria di tempi ormai definitivamente tramontati. 

E questo a fronte di tanti cammini di fede, cristallini, che nascono nei luoghi più improbabili e inaspettati. A fronte di esperienze religiose autentiche che maturano ancor oggi nel vissuto di tanti pagani del nostro tempo e che riflettono amore sincero per la verità e la bellezza del vangelo.

Non lo dico perché dobbiamo rammaricarcene o mortificarci, ma perché in tutto questo c’è una lezione da imparare.

Una lezione che dice anzitutto questo: la fede non è una cosa che, una volta acquisita, rimane per sempre; non è cosa che si possa mettere in frigorifero e conservare senza far nulla. La fede va alimentata, va accompagnata, va fatta crescere, va custodita, altrimenti muore.

C’è anche un’altra lezione, però, che dobbiamo imparare: è la lezione offertaci dal personaggio del vangelo: è un romano, lontano dai vissuti religiosi del popolo di Dio, estraneo alle sue tradizioni e al suo culto, eppure così sensibile alla verità di Gesù che Gesù può dire di lui: “in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande…”

Qual è la lezione? La si potrebbe sintetizzare così: la fede per essere autentica, per essere realmente spazio di comunione con Dio, deve avere dei requisiti e i requisiti -questa è la notizia – non riguardano anzitutto la conoscenza dottrinale o la pratica liturgica, ma la qualità umana della vita. La fede fiorisce, matura e si sedimenta solo se il terreno è umanamente fecondo…

Ora, in che cosa consista questa umanità feconda è facile dire: basta guardare come il vangelo descrive il centurione: di lui si dice che aveva a cuore il proprio servo e che per lui ha accettato di umiliarsi domandando aiuto a Gesù. Si dice che molto ha fatto per la comunità giudaica di Cafarnao mostrando una sensibilità e una disponibilità che paiono sorprendenti se si considera che egli è uno straniero e, ancor più, suo compito è quello di tutelare l’ordine per conto delle forze di occupazione.

L’umanità del centurione è la sua magnanimità, la sua sensibilità, la sua dedizione, il senso profondo di ospitalità di cui dà prova e che lo induce a vedere oltre le differenze di rango e di appartenenza. Sono queste le cose che lo predispongono all’esperienza della fede, sono queste le cose che lo avvicinano a Gesù nonostante la sua ignoranza delle tradizioni e della legge, sono queste le cose che lo rendono terreno adatto perché Gesù vi impianti il seme del vangelo del regno. Che non dimentichiamolo: è il vangelo di agape, ovvero, il vangelo dell’amore.

È di questo che oggi noi abbiamo bisogno per riscattare un cristianesimo che rischia di impaludarsi nelle sabbie mobili di una concettualità e di un ritualismo senza vita.

È in questa umanità fatta di attenzione, di affetti, di gratuità, di magnanimità che deve inscriversi il nostro tentativo di riabilitare e riaccendere una fede altrimenti condannata all’estinzione.

È dentro questa umanità che il vangelo continua a vivere e a operare, incessantemente, anche oggi, producendo, nonostante noi, i suoi frutti migliori.

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