
All’inizio della pandemia mentre il virus disseminava morte dovunque sprofondandoci in uno scenario a dir poco apocalittico, ci domandavamo che cosa sarebbe successo dopo, quando tutto sarebbe finito. Le opzioni erano due: ritornare alla vita di prima come se nulla fosse successo, mettendo come tra parentesi il dramma vissuto, oppure cogliere in esso l’opportunità di un nuovo inizio. Nessuno, allora, immaginava che ci sarebbe potuta essere anche una terza opzione, oltre le due già citate: uscirne peggio di prima!
Ma è esattamente questo che sta accadendo. Non siamo ancora del tutto emersi dall’abisso dell’emergenza pandemica e l’impressione è che da essa non solo abbiamo imparato poco, ma che essa abbia scatenato e liberato i nostri istinti peggiori. Speravamo che il senso di solidarietà e di reciprocità sperimentato fieramente nei momenti più bui dell’emergenza potesse dar vita ad una convivenza civile edificata sulla coesione e la concordia e invece ciò che i nostri occhi registrano, di questi tempi, è l’incremento esponenziale di una litigiosità incontrollata e a tutto campo che genera dovunque divisione e contrasti, rendendo vano ogni tentativo di cammino comune. Speravamo che l’impatto brusco e traumatico con la potenza del male e, insieme, con la vulnerabilità che tutti ci accomuna, mettesse finalmente un argine all’individualismo imperante e favorisse un rinnovato stile di prossimità dove ciascuno è chiamato a sentirsi responsabile del proprio fratello e, invece, ciò a cui assistiamo è la proliferazione di un’autoreferenzialità acritica e acefala che viene dai più spacciata come diritto alla libertà, e che invece altro non è che una patetica concessione al culto di sé. Speravamo che la dura legge del virus che nulla cede all’idealità, ci riportasse con i piedi per terra, rendendoci più attenti a ciò che accade nella realtà, senza mistificazioni, e invece dobbiamo fare i conti con il rapido propagarsi, qualunque sia l’ambito dal quale ci si muove, di letture e visioni del mondo che, per il loro spessore ideologico, non di rado arrivano a falsificare la verità.
Ci si muove in un mondo finto, costruito a propria misura e a misura delle proprie idee, dove ogni cosa ha diritto di essere solo per il fatto di esistere nella nostra mente.
In un contesto come questo suonano provvidenziali le parole dell’Arcivescovo che, all’inizio di questo anno pastorale, richiama la Chiesa che vive in Milano al compito urgente di essere nella società testimonianza viva e credibile di unità, di libertà e di gioia.
Anzitutto unità: la chiesa deve essere testimonianza di unità. L’impresa non è facile perché le nostre comunità cristiane sono spesso un composto eterogeneo di individualità molto differenti tra loro. Nelle nostre comunità cristiane si incrociano vissuti diversi, si incrociano provenienze culturali diverse, posizioni politiche diverse, sensibilità sociali diverse, e anche il modo di vivere e sentire la fede non è affatto univoco.
Ora, in uno scenario così rarefatto e variegato come può essere praticabile la via dell’unità?
La risposta è semplice: non lo può essere in alcun modo, se l’unità che abbiamo in mente è quella che si edifica sul compromesso delle parti o sulla condivisione di una comune unità di intenti.
L’unità diventerà una via praticabile solamente se avremo il coraggio di edificare il nostro camminare insieme, oltre le differenze che pure ci caratterizzano, sul fondamento di una comune appartenenza a Cristo. Appartenenza che si sostiene attraverso l’esperienza di una quotidiana comunione con lui e attraverso la ferma adesione della mente e del cuore alla verità – la prima e l’unica verità – che egli rappresenta. Nessuno è di Pietro, o di Apollo o di Paolo, se vogliamo parafrasare ciò che l’apostolo Paolo scrive alla sua comunità di Corinto, tutti siamo di Cristo: è lui il fondamento del nostro camminare insieme. Se desideriamo ritrovare l’unità e comporre le differenze che ci identificano in modo che non ci dividano ma ci arricchiscano dobbiamo ritornare, come spesso ci ricorda Papa Francesco, a Gesù e al suo vangelo.
Le nostre Chiese, dice l’Arcivescovo, devono diventare testimonianza viva di libertà e anch’esso ha di che apparire una sfida non facile perché il tempo in cui viviamo, per quanto la celebri e la invochi di continuo, sembra non essere più in grado di comprendere che cosa significhi davvero libertà. La forma che più comunemente oggi si dà alla libertà è quella di un diritto illimitato e indiscriminato ad avere e a fare ciò che si vuole. Naturalmente in questa definizione di libertà il riferimento agli altri, al bene comune, alla responsabilità etica, all’importanza del dialogo, non ha alcun diritto di cittadinanza.
La Chiesa è chiamata in questo frangente di storia ad essere testimonianza di una libertà diversa: una libertà che preferisce l’impegno alla rivendicazione, che preferisce mettersi al servizio del bene di tutti piuttosto che inseguire ossessivamente il proprio interesse, che preferisce il confronto aperto e dialogante alla pregiudiziale chiusura nei confronti delle diversità. La Chiesa, le nostre comunità sono chiamate ad una libertà che è adesione al grande progetto divino di un indissolubile alleanza d’amore che vede Dio e l’uomo camminare a fianco a fianco lungo i sentieri della storia.
Da ultimo, l’Arcivescovo chiede alla nostra Chiesa di essere testimonianza della gioia. La parola gioia appartiene al lessico ordinario della vita umana, non è una “virtù” cristiana. La gioia è di tutti: tutti gli uomini ne hanno bisogno, tutti gli uomini la cercano. La gioia è, infatti, espressione di una vita compiuta, di un’armonia finalmente raggiunta, di un impegno gratificato dalla presenza di molti frutti.
Capita, però, a volte nella vita di imbattersi in tempi bui, dove le gratificazioni sono poche, dove l’armonia viene a mancare, dove le circostanze non sono favorevoli: viene difficile, in tempo così, vivere l’esperienza della gioia. Pensate a tempi come quelli che stiamo vivendo, pensate a coloro che per via della pandemia si sono trovati defraudati degli affetti più cari, pensate ai tanti che hanno perso il lavoro e si trovano a lottare per la sopravvivenza propria e della propria famiglia, pensate al dramma dei profughi afghani costretti a vivere nel terrore e nella privazione dei più elementari diritti umani. Come si fa, in circostanze come queste, a parlare di gioia?
Ecco, noi siamo chiamati ad essere testimoni di una gioia che non dipende dalle circostanze e non è condizionata dalle vicissitudini del presente, siamo chiamati ad essere testimoni di una gioia che è sempre possibile perché radicata nella consapevolezza dell’essere amati, voluti, perdonati, accolti da Dio.
La vera gioia, dice Papa Francesco, “non viene dalle cose o dall’avere. Nasce dall’incontro, dalla relazione con gli altri, nasce dal sentirsi accettati, compresi, amati e dall’accettare, dal comprendere e dall’amare, non per l’interesse di un momento, ma perché l’altro, l’altra sono una persona. La gioia nasce dalla gratuità di un incontro!
È il sentirsi dire: “Tu sei importante per me”, non necessariamente a parole. Questo è bello… Ed è proprio questo che Dio ci fa capire. Nel chiamarci Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio bene, conto su di te”.
Se sapremo vivere così la nostra fede, non è escluso che anche un tempo come questo, per quanto cupo e incerto, possa diventare l’inizio di qualcosa di promettente…
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