
Questo nuovo anno pastorale inizia nel segno del pane.
E la cosa fa specie perché nella società nella quale viviamo, società dell’opulenza, dell’accumulo, del benessere ad ogni costo, il pane sembra essere l’ultimo dei nostri pensieri.
Noi, infatti, abbiamo tutto, disponiamo di tutto ciò che ci serve per vivere e se ci manca qualcosa siamo in grado di procurarcela facilmente.
Il problema per noi non è la mancanza del pane, semmai, il problema è l’averne troppo e il non sapere cosa farne, Il problema per noi è la noia che viene dalla sazietà.
Eppure, incredibile a dirsi, anche in questa società del benessere e dell’opulenza c’è qualcuno che ha fame.
Certo, direte voi, perché la società dell’opulenza non è società dell’opulenza per tutti: ci sono i ricchi, ci sono quelli che stanno bene, ma, insieme a loro, ci sono anche i poveri, quelli che vivono nella miseria e il pane lo cercano disperatamente, per loro e per i loro figli.
E noi se vogliamo essere Chiesa di Cristo non possiamo rimanere sordi al loro appello. Non possiamo rimanere indifferenti al grido di coloro che dall’abisso della loro miseria domandano aiuto e chiedono speranza per il loro domani.
Il Signore ci affida il suo pane chiedendoci di esserne a nostra volta portatori, il Signore ci chiede di essere portatori di pane: il pane della carità, il pane della cura, il pane della solidarietà.
Incomincia da qui la testimonianza del Vangelo: ripetendo il gesto amorevole di Gesù che dà il pane alle folle affamate, che prova compassione per chi è smarrito e si adopera con infinita amabilità per reintegrare chi vive nell’emarginazione e nella povertà. Questo ha fatto Gesù, questo dobbiamo fare anche noi. Non ci sono né sconti, né ribassi: il segno del pane ci riconduce all’urgenza della carità.
Nella nostra società dell’opulenza e del benessere non sono, però, solo i poveri ad avere bisogno di pane.
Ci sono anche persone che hanno tutto, ma nonostante questo continuano a mendicare pane, perché hanno l’impressione che manchi loro ciò che veramente nutre la vita e la rende feconda, sono quelli che nel loro essere sazi avvertono dentro di loro il sorgere di una fame profonda e insaziabile.
È per loro, soprattutto per loro, che Gesù si offre come pane del cielo, come pane della vita, come pane che sostiene il cammino e rigenera le forze quando vengono meno, come pane che apre all’eternità.
Ed è per loro, per tutti loro, che il Signore ci chiede di diventare una volta ancora portatori di pane, non solo il pane della carità, ma anche il pane della fraternità e dell’unità, il pane della verità che rende liberi e il pane della gioia che alleggerisce il cuore dalle pesantezze della vita.
Anzitutto il pane che Gesù ci offre e di cui ci chiede di essere portatori è il pane dell’unità e della fraternità.
Lo è perché questo pane, questo pane che Gesù ci dona, questo pane che è Gesù, è un pane spezzato, un pane frantumato, un pane condiviso.Tutti conoscete quel che avvenne durante la cena: “Gesù prese il pane, lo spezzò, lo diede loro e disse: questo è il mio corpo.”
Il pane di Gesù, il pane che è Gesù non fatto per essere esibito sugli altari in bella mostra, non è fatto per essere contemplato a distanza, come per preservarne l’inavvicinabile sacralità, il pane che Gesù dona è il pane dell’ospitalità nel segno del quale tutti possono riconoscersi fratelli, è il pane della comunione, mangiando il quale tutti ci si sente parte, direbbe san Paolo, dell’unico vero Corpo di Cristo che è la comunità dei credenti.
Il nostro Arcivescovo nella sua Lettera pastorale chiede alle comunità cristiane di essere testimonianza viva di unità.
Ebbene, è su questo pane spezzato che si edifica l’unità e la comunione che ci rende segni di vangelo, non sulle intese, sulle convergenze di pensiero, sul consenso condiviso o le strategie politiche.
La comunione nasce dall’aver fatto nostro il pensiero di Cristo, dal lasciarci muovere all’unisono dal vento fecondo dello Spirito che riceviamo ogni volta che ci nutriamo del suo pane di salvezza.
Mi chiedo: noi che ci nutriamo di questo pane di comunione siamo capaci di guardarci riconoscendo gli uni negli altro, non un estraneo, ma un fratello, da accogliere e da amare?
Il pane che siamo chiamati a portare è dunque il pane della condivisione, ma è anche, dicevamo, il pane della libertà. Noi sappiamo quanto la libertà oggi sia ritenuta un valore non negoziabile e giustamente perché la libertà è un valore non negoziabile.
Ma sappiamo anche quanto spesso la libertà che invochiamo e che pretendiamo sia in realtà una contraffazione, una deformazione della libertà. Pretendiamo emancipazione e autonomia, ma nel nome dell’emancipazione e della autonomia finiamo per consegnarci ad una schiavitù ancor più penosa di quella da cui vogliamo fuggire.
Parlo della schiavitù che ci assoggetta a noi stessi, che ci assoggetta ai nostri istinti, alla nostra bramosia, alle nostre passioni incontrollate.
Ma, permettetemi, c’è un’altra schiavitù che si sta facendo strada in questi ultimi tempi e che non è meno pericolosa della prima: è la schiavitù che ci assoggetta ai media, che ci rende vulnerabili nei confronti di chiunque si presenti detentore di una verità assoluta, che ci induce a vendere la nostra intelligenza, senza nessun vaglio critico, al parere di chi urla più forte. Per ogni cosa, anche per la fede, ci siamo confezionati le nostre autorità, disegnate ad immagine e somiglianza delle nostre attese, e per esse siamo disposti a mettere in discussione qualsiasi cosa, anche il buon senso.
Ebbene, la nostra autorità, ci dice il vangelo, l’unica autorità alla quale dobbiamo consegnare la nostra vita è Cristo e chi ne custodisce con fedeltà l’insegnamento.
Il pane che ci è donato è il pane della libertà, perché mangiando questo pane noi diventiamo una sola cosa con Cristo, ci assimiliamo al suo pensiero, ci radichiamo nell’unica verità che ci rende davvero liberi, la verità che è Cristo stesso.
Da ultimo, la gioia. Il pane che siamo chiamati a portare è anche il pane della gioia. Perché il pane della gioia? Che cosa c’entra il pane con la gioia?
Qualcuno potrebbe dire che questo è il pane della gioia perché è pane che sazia e l’esperienza della sazietà ci procura gioia.
Ma non credo che sia questa la gioia che davvero ci interessa, la gioia che dipende dall’avere la pancia piena, la gioia che deriva dalla sazietà. La gioia vera, quella di cui abbiamo veramente bisogno è la gioia che nasce dall’esperienza del dono.
Questo pane è il pane della gioia perché è un pane donato: “prendete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi …”
Attraverso questo pane noi facciamo esperienza dell’amore di Dio, della sua sollecitudine, della sua infinita magnanimità, del suo premuroso accompagnarci lungo i sentieri, a volte impervi della vita.
Ci sarà sempre un pane a sostenerci nel cammino. Ci sarà sempre quel pane, che è Gesù, a dirci che Dio ci ama e cammina con noi: è questa la buona notizia che siamo chiamati a portare perché la gioia sia di tutti e contagi il mondo.
Così sia.