
Non so voi, ma a me io le parole di Isaia, quelle che abbiamo sentito risuonare questa mattina, le ho trovate piuttosto famigliari.
Mi è sembrato famigliare il loro tono, per cominciare: un tono appassionato, coinvolto, struggente, simile a quello di tante nostre preghiere. Se penso a quante preghiere abbiamo alzato e gridato verso il cielo in questo tempo di pandemia, chiedendo a Dio di volgere lo sguardo su di noi e di non abbandonarci nell’abisso della prova!
Mi è sembrata famigliare la situazione in cui quelle parole hanno preso vita: il profeta Isaia ha di fronte a sé un popolo testardo e recalcitrante.
Per quel popolo Isaia si è fatto voce di Dio, ma Israele la voce di Dio non l’ha voluta ascoltare, ha preferito ascoltare la voce del proprio egoismo e della propria presunzione, incamminandosi così verso la via che porta alla distruzione.
Ora, mi chiedo, noi, quando alziamo lo sguardo, che cosa vediamo? Quando guardiamo questo nostro mondo e lo facciamo con disincanto, che cosa vediamo? Che cosa vediamo quando ci guardiamo dentro?
Non vediamo anche noi, come Isaia, il dilagare dell’iniquità, il proliferare dell’ingiustizia, il diffondersi incontrollato della mediocrità?
E, dopo aver guardato questo mondo, e noi stessi, intrappolati nel peccato e incapaci di comprendere la via del bene, non viene anche a noi di fare come il profeta Isaia, cioè di elevare a Dio la nostra preghiera per invocare pietà, per chiedere a Dio che non sottragga il suo sguardo di misericordia, per mendicare da lui una nuova ennesima possibilità di riscatto?
Signore, noi non siamo diversi dagli uomini e dalle donne di Israele cui si rivolse il profeta Isaia:
ci hai indicato la via che conduce alla vita e noi abbiamo scelto la via che porta alla morte;
ci hai insegnato la mitezza per edificare un mondo di concordia e di pace, ma noi abbiamo scelto l’odio e la violenza;
ci hai dato una legge per tenere a bada il nostro istinto e la nostra bramosia, ma noi nel nome di qualcosa che chiamiamo libertà siamo divenuti schiavi del nostro egoismo;
ci hai offerto una parola a cui ancorare il nostro desiderio, ma non abbiamo voluto fidarci di nessuno se non di noi stessi.
Perdonaci, Signore. Aiutaci, rialzaci, non abbandonarci a noi stessi.
Eccola la preghiera di Isaia, nella sua profonda e sconcertante attualità…
Ora, se è vero che le parole di Isaia sono anche le nostre parole va, però, detto che in quelle parole, se le si legge con attenzione, si cela qualcosa di profondamente originale: qualcosa che ancora facciamo fatica ad assimilare e che, però, ha il potere di aprirci un varco nel il mistero di Dio.
L’originalità sta nella motivazione che legittima la richiesta di perdono.
Per noi la motivazione è chiara: chiediamo a Dio il perdono perché sappiamo che Dio è magnanimo e misericordioso.
Sappiamo bene che per i nostri peccati dovremmo essere condannati e sappiamo bene che Dio in quanto Dio, dovrebbe agire con giustizia e punirci per il male che compiamo, perché egli è il giusto per eccellenza, ma siccome Dio è anche misericordioso, allora, pensiamo, che possa dimenticarsi per un attimo di essere Dio, che possa chiudere un occhio sul male commesso, che possa mettere temporaneamente in deroga il suo dovere di giustizia.
La misericordia per noi è questo: una deroga che Dio fa al suo essere Dio, una deroga che Dio fa al suo dovere di giustizia, una specie di accomodamento…
Non è così per il profeta Isaia: anche Isaia chiede a Dio di avere pietà di Israele ma non perché il suo cuore è magnanimo, ma perché solo così potrà risplendere la sua gloria davanti a tutti gli uomini della terra.
Il perdono di Dio è invocato perché la gloria di Dio si mostri in tutto il suo splendore e in tutta la sua forza di attrazione.
Nelle pagine della scrittura sacra che oggi abbiamo ascoltato, la parola gloria l’abbiamo sentita ripetere molte volte: l’abbiamo sentita affiorare sulle labbra di Isaia, come stiamo dicendo, l’abbiamo sentita evocare da Gesù il quale, parlando con i giudei suoi avversari, più volte afferma di voler cercare la gloria di Dio, a differenza loro che invece non cercano altro che la propria gloria.
Ma che cos’è la gloria di Dio?
La gloria di Dio è ciò che accredita Dio come Dio. È ciò che ci fa vedere Dio come egli è veramente. È il modo con cui Dio rivela il suo volto e si fa conoscere al mondo.
Ebbene per Isaia ciò che accredita Dio come Dio è il perdono. Non è la giustizia, non è l’impassibilità, non è la neutralità, non è la perentorietà inamovibile del proprio giudizio, ma la misericordia.
Ciò che accredita Dio come Dio è l’amore con cui egli si vincola indissolubilmente ad un popolo così che, senza quel popolo, egli si trova nell’impossibilitò di essere se stesso.
Capite la svolta: il perdono invocato non è più deroga al dovere divino della giustizia, ma è la giustizia di Dio.
Io credo che sia questo che Gesù suggerisce mettendo in contrapposizione la gloria di Dio con la gloria degli uomini.
Non è solo la contrapposizione tra l’altruismo di Gesù che si mette al servizio della gloria di qualcun altro, il Padre, nel suo caso, e l’egoismo di chi invece persegue unicamente la propria gloria.
È anche la contrapposizione tra due modi diversi di concepire Dio.
La testimonianza di Gesù è così difficile da comprendere e accettare perché è la testimonianza di un Dio che per rivelarsi ha bisogno di svincolarsi dai canoni con cui la tradizione religiosa degli uomini da sempre cerca di comprenderlo.
La testimonianza di Gesù è così ostica perché è la testimonianza di un Dio che ama l’umanità, di un Dio per cui la vita vale più della legge, di un Dio che non si rassegna di fronte al peccato e all’infedeltà, perché continua a credere nell’uomo e nella potenza trasfigurante dell’amore.
Noi quale Dio testimoniamo?