
Ha ragione Gesù: il centurione di Cafarnao merita tutta la nostra ammirazione. E ci sono almeno due ragioni per cui la merita.
La prima ragione la si apprende dalle parole stesse di Gesù che dice: “non ho trovato in Israele nessuno che abbia una fede così …”. Gesù loda il centurione per la sua fede. Lo loda per aver avuto fiducia in lui, per aver confidato incondizionatamente nella potenza salvifica della sua parola. Cose tutt’altre che ovvie, soprattutto per chi, come lui, non è un figlio di Israele, ma un pagano, e come tale non ha dimestichezza con il Dio di Gesù.
Noi sappiamo bene quanto sia difficile dare fiducia e quanto sia difficile mettersi nelle mani di qualcun altro: lo è ancora di più se questo “qualcun altro” è un Dio senza volto, un Dio sconosciuto. E se non fosse all’altezza delle attese? E se non fosse quel Dio premuroso e misericordioso che ci si aspetta? E se questo Dio non avesse nessuna intenzione di gettare lo sguardo al di là dei confini dell’alleanza?
Le domande sono molte e tutte convergono a sottolineare come qui il centurione decida di azzardare una scommessa che, per gli ampi margini di incertezza che presuppone, ha di che essere considerata uno straordinario atto di fede.
Attenzione, però: a rendere straordinaria la fede del centurione non è solo il fatto che egli è un pagano e da uno come lui non te l’aspetti. Gesù loda la fede del centurione perché vede in essa qualcosa di speciale , qualcosa di non usuale, qualcosa che fino ad ora non ha mai visto nemmeno tra i figli eletti di Israele.
Ora, la domanda è: che cosa vede Gesù? Che cosa rende così speciale la fede di questo pagano?
Anzitutto questo: l’aver pensato che un Dio, proprio perché Dio, non potesse rimanere indifferente di fronte ad un padre che chiede aiuto per il proprio figlio, anche se si tratta di un pagano. Qui sta la potenza della fede del centurione: credere che la verità di Dio, oltre le convenzioni, le appartenenze, le rivendicazioni religiose, stia nella complicità che egli mostra nei confronti dell’amore dell’uomo e nella prossimità che lo porta a condividere il suo dolore.
E credere, nello stesso tempo, che questo basti, che non ci voglia altro: “non serve che tu entri nella mia casa, di’ solo una parola e mio figlio sarà salvo…”
Il terreno su cui il centurione si muove è terreno neutro, non è Israele e non è né territorio pagano: non si tratta di entrare nella casa dell’uno o dell’altro, ma nell’unico spazio in cui Dio e uomo possono incontrarsi e camminare insieme: lo spazio dell’amore. Il centurione, con l’azzardo della sua fede, sfida le convenzioni e ci porta al cuore del mistero di Dio.
Il centurione ha una sua idea di Dio e in forza di questa sua idea di Dio compie il suo atto di fede, noi quale idea di Dio abbiamo? Chi è il Dio nel quale ci riconosciamo? È il Dio che si nasconde dietro la burocrazia degli apparati religiosi o il Dio che esce in campo aperto incontrando l’uomo sul terreno della sua umanità abitata dall’amore?
È il Dio che non guarisce il figlio di un centurione perché è un pagano o il Dio che si intenerisce nel vedere un padre in pena per il proprio figlio, qualunque sia la lingua che egli parla o la religione che professa?
È il Dio avido del proprio spazio, al quale non ci si avvicina per non correre il rischio che ne sia violata la sacralità o è il Dio nelle mani del quale si affida volentieri ciò che è più caro?
La fede del centurione non è solo un atto che merita la nostra ammirazione, è una lezione straordinaria di teologia che ci spinge ad interrogarci con tutta serietà su quale sia il Dio in cui crediamo.
Ma la fede non è l’unica ragione per la quale il centurione va ammirato. Il centurione va ammirato anche per l’umiltà che dimostra nel recarsi da Gesù per chiedere il suo aiuto. Non c’è nulla di deplorevole, naturalmente, nel chiedere aiuto a qualcuno, né di umiliante, però, qui non stiamo parlando di una persona qualsiasi: stiamo parlando di un ufficiale di alto grado dell’esercito romano, una persona venerata e temuta. E una persona così avrebbe potuto dire, rivendicando orgogliosamente la propria posizione di superiorità: io sono un ufficiale romano, non posso umiliarmi, chiedendo aiuto a uno, che appartiene a una popolazione, che noi abbiamo conquistato e che deve stare sottomessa al nostro potere”. Il centurione è un uomo abituato ad imporre la sua volontà, non a dipendere dalla volontà altrui, è un uomo abituato a comandare e le sue parole lo lasciano trasparire chiaramente: se dico ad un mio sottoposto di fare una cosa egli la fa, se gli dico “vieni”, egli viene…
Avrebbe, dunque, potuto pretendere che fosse Gesù ad andare da lui e avrebbe potuto mandare un manipolo di soldati a prelevarlo obbligandolo a compiere il miracolo, anziché umiliarsi, mendicando il suo aiuto. Questo lo fanno i poveri e i disgraziati, non i centurioni.
Ma non è questo che fa il centurione: il centurione prende, va da Gesù e chiede umilmente il suo aiuto. Non gli interessa quel che gli altri pensano di lui, non ha paura di screditare la sua immagine, non teme di passare per un debole, anzi al contrario, con il suo gesto, afferma inequivocabilmente che la sua autorità per quanto grande sia, non può arrivare a tutto. Ci sono cose che sfuggono al suo potere e per le quali anche uno come lui deve chiedere a Dio.
Anche questa è la sua lezione. E se noi, uomini del post-moderno, così impregnati di autosufficienza, di protagonismo, e di presunzione, riuscissimo ad apprenderla, anche per noi la salvezza diventerebbe una meta possibile.