Passando oltre …

Omelia del 27 marzo 2022 (Gv 9, 1-38b)

Passando oltre …

È già tutto racchiuso nel verbo che avvia il racconto: passando!

Un verbo con due facce, con due significati. Da una parte indica il “passare”: è il significato più comune, quello che normalmente gli viene attribuito. Dall’altra, indica il movimento di chi va oltre, di chi oltrepassa, di chi supera. Ecco, quello che Gesù fa in questo racconto del cieco è custodito dall’intreccio di questi due significati. Gesù passa e oltrepassa!

Passa, perché si muove, cammina, e nel suo muoversi, incontra. Il movimento di Gesù non è solo spostamento geografico, ma la condizione che rende possibile l’incontro. Se Gesù non fosse “passato”, se Gesù non avesse attraversato la città degli uomini non avrebbe mai incontrato il cieco nato, non si sarebbe mai imbattuto nella sua miseria, non avrebbe mai raccolto la sua silenziosa invocazione. 

Gesù passa, ma, al tempo stesso, “oltrepassa”. Perché quando incontra Gesù non si ferma all’apparenza, va oltre. Vedendo l’uomo cieco egli non vede solo un uomo cieco dalla nascita, ma l’opportunità che egli offre perché la gloria del Padre si riveli e si compia. 

Gesù sa che ogni cosa è rimando e possibilità: nell’orizzonte dell’incarnazione ogni cosa, anche la malattia, anche l’umanità ferita di un uomo privato della vista, può divenire luogo della manifestazione di Dio e densità di una presenza che chiama alla relazione.  

Mi domando: tu cosa vedi … Che cosa vedi quando guardi un uomo? L’apparenza o il suo significato? E che cosa vedi quando vedi un uomo cieco dalla nascita? La malattia che lo condanna in maniera irreversibile alla marginalità o le potenzialità di una vita che attende il suo riscatto? 

Il peccato che porta con sé l’onta di un giudizio inappellabile e mortifica ogni possibilità di redenzione o la grazia di una destinazione che non esclude dal progetto di Dio? 

È intorno a questa domanda, apparentemente superflua, e invece del tutto decisiva, che il racconto dà forma al conflitto che vede contrapposti Gesù e le autorità giudaiche. 

Gesù, lo abbiamo visto, sa “oltrepassare”, sa “vedere oltre”, le autorità giudaiche no. Guardano il cieco, ma ciò che vedono è solo ed esclusivamente la sua malattia, il suo peccato, la miseria di cui è fatta la sua storia personale e sociale. 

L’assioma della retribuzione che regola il complesso sistema di relazioni tra l’umano e il divino impedisce loro di vedere altro. La malattia, l’infermità, le catastrofi devono avere una causa e tale causa, perché sia salvaguardata, da una parte, la giustizia di Dio, dall’altra il suo potere, non può che essere la colpa dell’uomo! Una colpa che spesso ha radici nascoste, che spesso è invisibile o sotterranea, ma che è indiscutibile. È questa colpa che essi vedono quando guardano il cieco. Una colpa che imbriglia il cieco dentro le maglie di un destino senza appello e Dio dentro la necessità di una giustizia preconfezionata.

Ma Dio può essere imbrigliato dentro una necessità imposta dall’uomo?

La sua giustizia può essere costretta nel campo d’azione disegnato dal peccato e dalla colpa? È qui che il gesto e le parole di Gesù acquisiscono la loro dirompente forza di provocazione.

Nessuna giustizia, neanche quella di Dio, è in grado di riscattare o liberare l’uomo dal suo peccato, se rimane vincolata all’ingranaggio retributivo. Nessuna giustizia, neanche quella di Dio, è in grado di aprire un varco verso vita se è condannata ad una persistente e servile dipendenza nei confronti del peccato dell’uomo e della sua libertà. La giustizia di Dio non può essere e non deve essere la giustizia della colpa. La giustizia di Dio è la giustizia dell’amore. E il suo nome – perché ha un nome questa giustizia svincolata dal peccato e dalla legge –, il suo nome è misericordia! 

Le parole e i gesti che Gesù compie con il cieco hanno il merito di scardinare in modo definitivo l’assioma che collega inscindibilmente giustizia di Dio e peccato dell’uomo. 

E non solo, hanno anche un altro merito: sottrarre il peccato e più in generale la libertà dell’uomo dall’irreversibilità del loro destino. 

Se, infatti, l’agire dell’uomo e la sua condizione di vita sono da ricondurre sempre e comunque all’inappellabile giustizia di Dio, dentro l’orizzonte chiuso della legge che tutto misura in termini di osservanza e di violazione, allora per l’uomo non c’è via d’uscita. L’uomo è condannato senza possibilità di riscatto. Il peccato lo segna in modo irreversibile. Nel presente e nel futuro.

Ma se la giustizia di Dio è altro, se la giustizia di Dio “oltre-passa” la legge e la necessità che il peccato porta dietro di sé come suo effetto immediato, allora una via d’uscita è possibile, ed è possibile per tutti…

Se la giustizia di Dio è la giustizia dell’amore, e non della colpa, non c’è situazione, neanche la più drammatica che si riesca ad immaginare, neanche quella abitata dal peccato più vergognoso, che non possa diventare manifestazione della potenza di Dio che riscatta l’uomo dalla sua miseria e lo apre alla vita. 

“Vedere” per Gesù vuol dire questo: vedere oltre il confine imposto dalla colpa e dalla legge, e vedere, oltre questo confine, la potenza di un amore, inequivocabilmente divino, capace di sfondare gli sbarramenti del peccato e rigenerare la vita anche dove regna la morte.

Noi vediamo questo? Perché se non lo vediamo siamo ciechi esattamente come gli scribi e i farisei del vangelo…

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