L’ospitalità della preghiera

Omelia di domenica 25 settembre (Mt 6,9-13)

L’ospitalità della preghiera

C’era un vecchio eremo sulla montagna dove abitavano un giovane monaco e il suo anziano maestro. Un giorno il giovane monaco si recò dal proprio maestro e gli chiese: “Insegnami a pregare”. L’anziano maestro, senza tradire alcuna incertezza, come di chi sa perfettamente quel che sta dicendo, gli disse: “Nei prossimi giorni avremo degli ospiti qui all’eremo, Tu andrai in foresteria e ti occuperai di loro”. Il giovane monaco rimase perplesso, ma tale era la stima che nutriva per l’anziano monaco che fece quel che gli era stato chiesto senza obiezioni. 

Gli ospiti arrivarono ed egli li accudì come meglio poteva: cucinò per loro, si adoperò per soddisfare i loro bisogni, ascoltò le loro domande e cercò di intrattenerli perché il loro soggiorno fosse piacevole. Partiti gli ospiti, il giovane monaco si recò di nuovo dall’anziano maestro e gli fece di nuovo la stessa domanda: “Maestro, ti prego, insegnami a pregare”. Il maestro gli disse: “nei prossimi giorni avremo di nuovo dei pellegrini in visita all’eremo, ti occuperai anche di loro”.

Questa volta, il giovane monaco non riuscì a trattenere la propria perplessità e, preso coraggio, con rispetto, ma anche con una certa schiettezza, disse: “Maestro io so che sei un uomo saggio e guai a me contestare i tuoi consigli, ma illuminami: come posso imparare a pregare se sto tutto il giorno con gli ospiti del convento? Come posso imparare l’arte dello “stare davanti a Dio” nel silenzio della preghiera se devo occuparmi dei bisogni di pellegrini e viandanti?” Il vecchio monaco, guardandolo con benevolenza, gli disse: “vuoi imparare a pregare? Ebbene, non lo potrai fare se prima non avrai imparato l’arte dell’ospitalità…”

Questa risposta fa pensare: perché l’arte dell’ospitalità? Che cosa c’entra la preghiera con l’ospitalità? Lo stare in silenzio raccolti a contemplare il mistero con il darsi da fare nell’accoglienza dei fratelli? 

C’entra, perché la preghiera, se ci pensate bene, altro non è che una forma di ospitalità. La preghiera è il nostro modo di dare ospitalità a Dio. È il modo che abbiamo per aprirgli le porte della nostra casa così che egli possa abitare con noi. 

Ma che cosa vuol dire ospitare Dio? Di quale ospitalità stiamo parlando? 

Noi sappiamo che esistono molti tipi di ospitalità e non tutti sono compatibili con l’esperienza della preghiera. C’è ad esempio un’ospitalità forzata, indotta: è l’ospitalità di chi considera il proprio ospite un intruso. Ci convive, ma lo percepisce come un corpo estraneo. È chiaro che non può essere questa l’ospitalità che incarna l’esperienza della preghiera. Eppure, dobbiamo riconoscerlo, è proprio questa, talvolta, la forma di ospitalità che caratterizza il nostro rapporto con Dio. Dio c’è, la sua presenza la percepisci ovunque, è un’eredità dal nostro passato di cui non possiamo che prendere atto, ma è un’eredità scomoda. Oggi sono in molti a considerare Dio un’ospite indesiderato. C’è poi l’ospitalità un po’ bugiarda di chi si dice pienamente disposto ad aprire le porte della propria casa, ma all’unica condizione che il proprio ospite non accampi alcuna pretesa. Vieni, ma stai al tuo posto … 

Ospitare, in questo caso, significa “accantonare”, confinare in un angolo, addomesticare l’altro così che la sua presenza non sia di fastidio e non generi problemi. Ora, ditemi se non è questo il modo con cui molti cristiani di oggi si rapportano con Dio. Dio lo accolgono, gli creano uno spazio proprio, lo riveriscono di tanto in tanto, ma mai sono disposti a lasciarlo entrare nella propria vita, mai sono disposti a lasciargli spazio nella progettazione del loro futuro. Dio c’è, è ben presente nelle loro vite, ma non incide, non aggiunge e non toglie nulla. Ma può essere questa la forma dell’ospitalità che incarna la preghiera cristiana?

La preghiera cristiana è una forma di ospitalità il cui senso profondo è dichiarato dalla stessa preghiera di Gesù.

Ai discepoli che gli chiedono di insegnare loro a pregare Gesù dice: pregate così: “Padre nostro”. Dire Padre vuol dire confidenza, intimità, relazione. Per il cristiano Dio non può essere un intruso e non può essere nemmeno a un semplice ornamento. Vivere la preghiera come ospitalità significa accogliere Dio nella propria vita, lasciare che egli prenda dimora, che egli abbia diritto di accesso nei luoghi in cui si decidono le cose importanti della vita. 

E se è così, voi capite, l’ospitalità che la preghiera incarna non è un’ospitalità facile. È al contrario, un’ospitalità impegnativa, obbligante, destabilizzante. E lo è a tal punto che sono in molti oggi a domandarsi, e forse ce lo domandiamo anche noi: Ma è proprio il caso di dare ospitalità a questo Dio? È proprio necessario fargli spazio nelle nostre vite se questo significa cederne il controllo? Non possiamo camminare con le nostre gambe, decidere con la nostra testa, seguire il nostro fiuto? Perché dovremmo avere bisogno di Dio? 

La risposta la troviamo ancora una volta nelle parole di Gesù.

La prima di queste parole è: “venga il tuo regno”. Noi abbiamo bisogno di ospitare Dio nelle nostre vite anzitutto per questo: perché il regno che stiamo costruendo, il mondo a cui stiamo dando forma, spinti dall’impeto dei nostri bisogni e dall’urgenza dei nostri interessi è un mondo in cui non si vive bene… 

È un mondo dominato dall’odio e l’indifferenza, un mondo in cui il sopruso prevale sulla giustizia, un mondo in cui i rapporti sono regolati dalla prepotenza e dal sospetto. Noi abbiamo bisogno di un regno nuovo, diverso, e per questo siamo qui a chiederti, Signore, all’inizio di questo nuovo anno pastorale: “venga il tuo regno”. Un regno in cui a dominare sia non la violenza, ma la pace, non la prevaricazione, ma il rispetto, non l’odio ma l’amore fraterno. 

Seconda parola: dacci il pane quotidiano.  Noi abbiamo bisogno di ospitare Dio nelle nostre vite perché abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a comprendere che cosa è veramente importante, che cosa è veramente decisivo per la nostra vita. Ci nutriamo di tante cose, il nostro desiderio incontrollato ci porta a consumare esperienze di ogni tipo, ci siamo confezionati un bene a misura dei nostri bisogni, ma spesso ci rendiamo conto che tutto questo è, direbbe Qohelet, un “inseguire vento”. Per questo, Signore, ti chiediamo: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, donaci il pane che ci serve per vivere, facci capire che cosa è davvero essenziale, che cosa è veramente bene per noi e per le persone che ci stanno accanto… 

L’ultima parola: liberaci dal male. Noi abbiamo bisogno di ospitare Dio nelle nostre vite perché abbiamo bisogno di essere custoditi dal maligno. Certo, in un mondo come il nostro che ha dissolto i fantasmi della colpa e del peccato nel nome del “tutto è lecito”, che ha cercato di esorcizzare il male di vivere con la promessa di un godimento illimitato, può sembrare paradossale parlare di male.  Eppure, mai come ora abbiamo la percezione che la vita ci si rivolti contro, la sensazione di essere sotto attacco, in balia di forze oscure che ci allontanano inesorabilmente dalla vita. Per questo, nella confidenza della preghiera, all’inizio di questo anno pastorale, noi vogliamo chiederti, Signore: “custodiscici dal male”.

La tua presenza in noi sia fonte di speranza, sia infusione di coraggio perché sappiamo vincere la tentazione dello scoraggiamento e dell’arrendevolezza, sia elargizione di forza, perché sottratti all’inerzia di una logica generatrice di morte, si possa camminare insieme sulla via che porta alla vita.

Così sia.

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