
Chi ha anche solo un minimo di familiarità con la Bibbia saprà certamente che i nomi di persona hanno in genere una grande importanza perché dicono qualcosa dell’identità di chi li porta. La cosa vale, naturalmente, anche per Elia, ma con una precisazione importante: per Elia il nome è il punto di partenza e insieme il punto di arrivo di un percorso.
Punto di partenza perché il nome Elia è, da una parte, l’identificativo di un’esperienza di alleanza con Dio che Elia pensa erroneamente di aver già guadagnato. Punto di arrivo perché questa esperienza di alleanza evocata dal nome del profeta non è affatto già acquisita, benché Elia pensi il contrario, ma l’esito di un percorso che il profeta dovrà accettare di compiere, lasciandosi guidare dalla sapiente pedagogia di Dio.
Tra i due estremi, tra ciò che Elia pensa di essere e ciò che dovrà diventare, c’è
lo spazio di un cammino che si chiama conversione. Solo percorrendo questo cammino Elia potrà ritrovare Dio e sé stesso come profeta.
La domanda a questo punto è: in che cosa consiste questo cammino?
Il testo biblico ce lo presenta come un percorso geografico ed esistenziale che prevede due snodi fondamentali. Il primo snodo, di cui si fa cenno nella prima lettura tratta dal libro dei Re, è situato sulle rive del Torrente Kerit, ad oriente del Giordano. Si tratta di un luogo isolato nel quale Elia dovrà fare esperienza della solitudine e della povertà più estrema. Sarà l’acqua del torrente a dissetarlo e i corvi per disposizione di Dio dovranno portargli di che nutrirsi.
Elia non dovrà fare nulla, dovrà semplicemente stare.
C’è nel testo ebraico un gioco molto bello di verbi che vale la pena mettere in evidenza. Dopo aver ricevuto il messaggio divino, Elia si alzò e si mise in cammino per fare, dice il testo biblico. E poi subito dopo si dice che arrivato al torrente Kerit, “stette”. Il verbo ebraico è il verbo della quiete e della staticità. Elia vuole fare, vuole darsi da fare, vuole rendersi utile, vuole essere mandato in missione, vuole parlare in nome di Dio, come si conviene ai profeti, Dio gli chiede di non fare nulla, di stare… semplicemente.
Lo possiamo immaginare il disagio di Elia, e lo possiamo immaginare perché in verità è un disagio anche nostro. Anche noi come Elia sentiamo l’urgenza del fare, del dire, dell’operare, e ci imbarazza il dover stare con le mani in mano. Ci sembra di buttare via il tempo, di essere inoperosi, di scomparire perché non di rado noi affermiamo noi stessi attraverso le cose che facciamo.
A noi come ad Elia Dio dice: ci sono dei momenti della vita in cui bisogna sapersi fermare, in cui bisogna non fare nulla e lasciare che facciano gli altri, in cui bisogna non dire nulla per ascoltare la parola di altri. Ci sono momenti nella vita in cui bisogna avere il coraggio di rinunciare ad essere protagonisti assoluti della scena perché altri lo diventino. Senza questa capacità di tirarsi in disparte qualsiasi alleanza, che sia con Dio o con gli altri esseri umani poco importa, diventa impossibile.
Arriviamo alla seconda tappa: questa volta Elia viene inviato in un villaggio vicino a Sidone, in pieno territorio pagano. Questa volta il luogo non è più così isolato e deprimente, ma di fatto l’esperienza non cambia: è ancora stanziale. Elia non è inviato a compiere una missione, non è inviato a parlare in nome di Dio, non è inviato a convertire i cuori, o ad annunciare il castigo divino.
Quel che gli è richiesto è ancora una volta è di vivere l’esperienza dello stare, del lasciarsi fare, del lasciare che altri provvedano a lui.
Al torrente Kerit erano i corvi a nutrirlo, qui sarà una donna. Ma da questa donna non riceverà solo cibo. Riceverà molto di più: un’illuminazione capace di aprirgli gli occhi, una rivelazione in grado di accendergli il cuore, un’esperienza capace di fargli percepire in modo nuovo e finalmente autentico la presenza di Dio. Se al torrente Kerit Elia fa esperienza dell’aver bisogno, del dover dipendere e capisce che è a partire da questa esperienza che egli potrà davvero entrare in relazione con Dio, qui, attraverso la generosità di una donna povera, disposta a donargli il pane e l’acqua necessari per vivere lei e suo figlio, Elia fa esperienza dell’ospitalità. Fa esperienza dell’avere qualcuno disposto a sacrificarsi per lui e a venir incontro al suo bisogno.
E capisce che solo dentro questa esperienza si può fare esperienza di Dio…
Dio è lì, si rende presente in quel gesto. E non importa che quel gesto sia una donna, per di più pagana a compierlo: dovunque ci sia qualcuno disposto a farsi prossimo, dovunque ci si qualcuno disposto ad accogliere e farsi carico del bisogno di un suo fratello, dovunque ci sia qualcuno disposto a sacrificarsi per qualcun altro, terra d’Israele o no, lì c’è Dio.
E non importa se si tratta di semplice orcio d’olio, o di un semplice bicchiere d’acqua, o una semplice focaccia: ciò che importa è che da essa fluisca la benedizione di Dio che sostiene e fa crescere la vita.
Fino a quel momento Elia aveva pensato a Dio come a colui che castiga, come colui che punisce, come colui incenerisce con il suo fuoco distruttore. E nel nome di questo Dio elia stesso ha invocato il flagello della siccità che sta sterminando la vita sulla terrà. Ora scopre che Dio, quello vero, non quello che egli si è immaginato, è colui che fa fluire la vita, non colui che la mortifica, è colui che effonde con generosità e abbondanza la sua benedizione sugli uomini, non colui che ritrae il suo favore, lasciando gli esseri viventi nella privazione.
E scopre Elia che se Dio è così anche coloro che gli appartengono devono fare la stessa cosa diventando loro stessi fautori del miracolo di una vita che si rigenera attraversa l’amore reciproco e la cura vicendevole.
Non è la stessa cosa che dice Gesù quando dice: Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Un semplice bicchiere d’acqua fresca perché la potenza del vangelo di Cristo irradi la terra. Perché ci è così difficile?