Consolate, consolate il mio popolo …

Omelia del 4 dicembre (Mt 21, 1-9)

Consolate, consolate il mio popolo …

“Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio, parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è finita”: questo attacco struggente del capitolo 40 di Isaia mi colpisce sempre per la sua tenerezza.

E ogni volta che lo ascolto mi domando se anche noi, oggi, non avremmo bisogno di parole così, parole di consolazione, parole capaci di parlare al cuore e infondere speranza.

Ma mi domando anche questo: quali parole di consolazione potrebbero esserci per noi uomini d’oggi? Quali parole di consolazione potrebbero esserci per un mondo che ha smarrito la via, per un mondo che ha dimenticato la giustizia e la solidarietà, per un mondo che ha perduto sé stesso e la memoria di ciò che rende umana la vita. Quali parole di consolazione potrebbero esserci per un mondo così…?

Spesso mi capita, parlando con le persone, soprattutto in questo tempo di benedizioni natalizie, di vedere nei loro occhi la disillusione e l’amarezza.

La disillusione per una realtà che non appare più affidabile, per una vita il cui il volto non appare più promettente. L’amarezza perché l’impressione è di essere di fronte ad una scommessa già persa in partenza: è sempre peggio, dove andremo a finire …?

Vedo gente spaventata dalla violenza, della violenza immotivata e gratuita, dalla violenza esibita come spettacolo e come divertimento. Vedo gente spaventata dall’indifferenza dilagante: anziani che vengono dimenticati dai propri figli, poveri che non hanno nessuno che si prenda cura di loro, migranti e stranieri che vengono esclusi da chi dovrebbe dare loro la possibilità di una vita migliore. Vedo gente che ha perso la speranza e il coraggio di lottare.

Dove trovare parole di consolazione per questa gente, parole credibili che siano capaci di sostenere la speranza di una svolta? 

Il profeta Isaia le parole le ha trovate e la situazione in cui egli vive e predica non è in fondo così diversa dalla nostra. Anche il popolo a cui egli si rivolge è un popolo che ha perso la bussola, è un popolo che ha smarrito la strada, un popolo che vive l’esperienza di uno sradicamento profondo. Eppure, egli è convinto che ci sia ancora una speranza. Che la tribolazione stia ormai per terminare, che l’esilio – esilio dalla terra, ma anche esilio dalla vita – non precluda la possibilità di un ritorno.

Dove trae Isaia questa convinzione?

Dall’idea che una conversione sia possibile!  Ma, attenzione: la conversione di cui parla Isaia è di Dio, non di Israele. 

Ciò che accende di speranza il cuore di Isaia non è la fiducia nella capacità di Israele di ritrovare la via della giustizia, ma la fiducia nella possibilità di Dio di mutare il suo giudizio di condanna in un giudizio di misericordia. Le parole di Isaia non nascono da uno sguardo ottimistico sull’uomo, ma da uno sguardo di fede capace di scorgere la presenza fecondante di Dio anche nei momenti della desolazione e dell’afflizione. Non è, capite, la nostra conversione, ma la conversione di Dio: per questo si può sperare…

Non è il ritornare dei nostri passi smarriti, ma il ritornare di Dio. Non siamo noi che con le nostre forze ritorniamo a lui, e lui che ci raggiunge là dove siamo, dispersi e smarriti, per riaprire una via al nostro ritorno.

E com’è questo venire di Dio? Che passi sono quelli con cui Dio viene a cercarci?

Sono, anzitutto, dice il Vangelo, i passi della mitezza.

Dio non viene per distruggere, ma per riabilitare; non viene per castigare, ma per riscattare; non viene per imporre il suo giogo, ma per liberare; non viene per reprimere, ma per educare.

Avete presente l’immagine di Gesù che entra a Gerusalemme, di cui oggi ci parla il vangelo: è questa l’icona della mitezza. In quell’incedere lento di Gesù seduto in groppa ad un puledro d’asina sono i passi di Dio. 

Passi che dicono: non sono un conquistatore, un dominatore, uno che viene a reclamare ciò che è suo. Così fanno i re di questo mondo e Gerusalemme nella sua lunga storia di questi re, conquistatori e devastatori, ne ha conosciuti parecchi. Io vengo con i passi della mitezza.

Dio viene con i passi della mitezza. E con i passi dell’amore… 

Perché la strada intrapresa da Gesù, nel mentre varca l’ingresso della città di Davide, è la strada che conduce alla Pasqua, la strada che porta nel luogo dove una sola regalità è possibile: quella che prevede il dono della vita.

Tra poco consegneremo a questi ragazzi che sono qui davanti il comandamento dell’amore. È il comandamento di Gesù, l’unico, il più grande, quello che li riassume tutti: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. 

Quando pensiamo ad un comandamento il nostro pensiero va subito, quasi istintivamente, ad una cosa da fare, ad impegno da assolvere. Io vi chiedo quest’oggi di pensare a questo comandamento come ad una strada.

È anzitutto la strada che ha percorso Dio per giungere fino a noi. Solo l’amore, infatti, ha potuto far sì che Dio venisse a cercarci nella nostra miseria.

Ed è la strada, l’unica possibile, che noi possiamo percorrere se vogliamo uscire dal nostro esilio di disperazione e di smarrimento. Solo l’amore potrà salvarci: questo dice il Vangelo”

Ed è questo che dovremo gridare al mondo se vorremo anche noi seminare parole di consolazione e di speranza.

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