
Come è bello!
Questo è lo slogan che ci siamo dati per celebrare quest’anno la festa della famiglia.
Perché questo slogan? Perché ci preme affermare, contro ogni evidenza, che c’è una bellezza dietro ogni esperienza di famiglia …
C’è una bellezza nel vivere insieme, c’è una bellezza nel gioco delle generazioni che si incontrano e si parlano, c’è una bellezza nella dedizione affettuosa che si consuma nel prendersi quotidianamente cura dell’altro.
Spesso, parlando di famiglia, si tende a metterne in luce i difetti, le fatiche, le pesantezze. E noi queste cose le conosciamo bene, perché le viviamo, fanno parte della nostra esperienza.
Ma sappiamo che la famiglia non è solo questo. Ci sono certo le fatiche, ci sono le incomprensioni, ci sono i litigi, ma dietro tutte queste cose, al fondo di tutto, c’è una bellezza che è dono di Dio da custodire con responsabilità e amore.
Ecco è questo che noi oggi vogliamo gridare al mondo: le nostre famiglie sono un dono che trasuda di bellezza, una bellezza a volte sommessa, resa opaca dall’abitudine e dalle fatiche della vita quotidiana, ma comunque capace di accendere di gioia la vita e di irradiare di senso il nostro cammino.
Non rimane, a questo punto, che chiedersi quale sia questa bellezza da gridare, da raccontare e da annunciare, come suggerisce il Papa, nell’ultimo incontro mondiale delle famiglie?
La risposta non sembra difficile: quando noi pensiamo alla bellezza della famiglia ci viene abbastanza spontaneo pensare, e le testimonianze che abbiamo ascoltato a inizio messa ce lo confermano, alla bellezza dei rapporti umani, alla bellezza dell’intimità, alla gioia della reciprocità, alla gratificazione che nasce dal sentirsi voluti bene e compresi, all’incanto di un’intesa che nasce dalla fiducia e dall’amore.
Non è però questa la bellezza di cui il Vangelo di oggi ci parla.
Il Vangelo oggi ci parla di un’altra la bellezza, una bellezza paradossale, che non trova posto nella retorica dei luoghi comuni sulla famiglia: la bellezza dell’estraneità.
Io quest’oggi vorrei parlarvi proprio di questa bellezza: la bellezza dell’estraneità.
L’estraneità non è un’esperienza che noi normalmente non associamo alla famiglia. Al contrario, la famiglia è per noi il luogo della non estraneità, dove tutti si sentono accolti, chiamati, considerati e ascoltati. L’estraneità è distacco, la famiglia è vicinanza; l’estraneità è solitudine, la famiglia è comunione; l’estraneità è non conoscenza, la famiglia è intimità.
Eppure, dice il vangelo, nella bellezza che rende la famiglia un autentico dono di Dio dev’esserci posto anche per l’estraneità.
Lasciate che vi spieghi che cos’è questa estraneità a partire dal racconto stesso del vangelo.
Maria e Giuseppe, compiuti i giorni della purificazione secondo quanto prescritto dalla legge, si recano a Gerusalemme per presentare a Dio il loro primogenito.
Il gesto che compiono potrà sembrarvi niente più che un adempimento legale, ma non è così. Il gesto che compiono ha in realtà un grande valore simbolico: offrendo, infatti, il loro figlio a Dio riconoscono che esso non è loro proprietà, non appartiene a loro, ma a Dio.
Sono loro i genitori di Gesù, sono loro che l’hanno messo al mondo, sono loro che hanno la responsabilità, eppure, c’è qualcosa nel loro figlio che non è riconducibile a loro. C’è un mistero dentro di lui che essi non possono comprendere e che lo rende sfuggente a qualsiasi loro pretesa di controllo e di indirizzamento.
Arriveranno a conoscerlo in profondità e ad amarlo, nei trent’anni di Nazareth, di lui impareranno a leggere gli sguardi, anche le pieghe più nascoste del suo cuore saranno per loro un libro aperto, ma guardandolo avranno sempre l’impressione di non conoscerlo fino in fondo, avvertiranno sempre in lui qualcosa che darà loro la sensazione di trovarsi di fronte ad un estraneo. Ad uno la cui missione lo porterà ad uscire dal reticolo delle loro attese e delle attese dei suoi famigliari.
Egli è venuto per la salvezza del suo popolo e per portare a compimento la promessa fatta da Dio a Israele.
Per questo Maria e Giuseppe consegnano Gesù nelle braccia di Simeone, perché egli è lì a rappresentare la domanda e l’attesa di un popolo intero.
Due gesti, quindi, due consegne che i genitori di Gesù compiono e che rivelano quanto Gesù sia vicino e al contempo infinitamente lontano da loro.
Ma questo non è un male, dice la scrittura, deve essere così, e deve essere così non solo per Gesù, ma per tutti, per ogni figlio, per chiunque viva l’esperienza di una relazione e di un legame
Perché l’altro sia bisogna che egli conservi la sua estraneità, bisogna che il suo mistero rimanga inviolato, che venga custodito nella sua imprevedibile diversità.
Per questa ragione l’atteggiamento paterno e materno che il Vangelo di Marco attribuisce ai genitori di Gesù, è quello dello stupore.
C’è un mistero nell’altro che va ascoltato e custodito, e perché questo sia possibile bisogna acconsentire a che l’altro sia anche sempre un estraneo e uno sconosciuto. Senza questo non può esserci nessun amore, e senza amore, voi capite, non c’è posto neanche per la bellezza …