Giornata del malato

Giornata del malato

Sabato 11 febbraio la Chiesa celebra la XXXI Giornata mondiale del malato, sul tema «“Scoperchiarono il tetto” (Mc 2,4). Una comunità che si fa carico del malato è sanata e sanante».

La celebrazione diocesana della Giornata ha come sempre il suo punto di riferimento nella parrocchia di Santa Maria di Lourdes a Milano (via Induno 12). Tra le numerose Messe in programma sabato 11, segnaliamo quella delle 10, presieduta dall’Arcivescovo, e quella delle 15.30 con la benedizione eucaristica ai malati, e, alle 21, la Processione mariana aux flambeaux con benedizione finale alla Grotta.

Commento teologico pastorale sul testo di Mc 2,4

Un giorno, quando la gente sep- pe che Gesù era a Cafarnao, proba- bilmente in casa di Simone (cf. Mc 1,29), «si radunarono tante perso- ne che non vi era più posto nean- che davanti alla porta; ed egli an- nunciava loro la Parola. Si recaro- no da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trova- va e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il para- litico. Gesù, vedendo la loro fede,

disse al paralitico: “Figlio, ti sono perdonati i peccati”» (Mc 2,2-5). Il brano evangelico prosegue con una discussione tra Gesù e alcuni scribi sul potere di rimettere i pec- cati – solo di Dio – e si conclude con la guarigione del paralitico, a riprova che «il Figlio dell’uomo ha l’autorità di rimettere peccati sulla terra» (Mc 2,10).

Il testo di Marco potrebbe sti- molare una riflessione sul rappor- to tra male morale e male fisico, con la pericolosa ipotesi di una corrispondenza causale, come se vi fosse correlazione tra la colpa e la pena, tra il peccato e la malattia

In questo caso però saremmo an- cora chiusi nell’orizzonte della re- tribuzione anticotestamentaria. In realtà, qui emerge proprio la novitàdi Gesù, che agisce con la potenza stessa di Dio: egli raggiunge la persona integralmente, nella

sua dimensione spirituale e fi- sica; tocca spirito e carne, sana tutto l’uomo. Ma ciò che inte- ressa notare – e il testo lo affer-
ma chiaramente, a differenza
di altri casi di guarigione – è la fede della comunità radunata intorno al malato, non quella
del paralitico, che non dice una pa- rola. Di lui parla solo la condizio- ne: è portato da quattro persone su una barella.

La scena pone l’accento sulle difficoltà incontrate, per giungere al cospetto di Gesù e presentargli l’ammalato. «La casa palestine- se si compone normalmente d’u- na sola stanza, con sopra un tetto piano fatto d’un traliccio di rami poggiante su traverse di legno e ri- coperto d’uno strato di fango sec- co che dev’essere risistemato ogni anno prima della stagione delle piogge. Spesso una scala esterna porta sul tetto» (E. Schweizer). No- nostante che in molte case d’esta- te resti un’apertura nel tetto per raggiungere il grano e altre prov- viste, che vengono seccate in alto

al sole, dev’essere stata un’impre- sa non da poco quella di scoper- chiare il tetto e aprirvi un varco abbastanza ampio, con la stanza piena di gente.

Gesù agisce con la potenza stessa di Dio: egli raggiunge
la persona integralmente, nella sua dimensione spirituale e fisica; tocca spirito e carne, sana tutto l’uomo

Il gesto degli accompagnatori è carico di determinazione, è come una preghiera silenziosa che ma- nifesta una profonda fiducia nel- la possibilità di Gesù di risanare il loro amico.

Nessuno li ostacola, nonostan- te ci sia una folla intervenuta per ascoltare il Maestro. Solo gli scri- bi discutono sulle parole di Gesù: «Perché questo qui parla così? Sta bestemmiando! Chi può rimettere i peccati se non uno solo, Dio?» (Mc 2,7). Senza lasciarsi distrarre, Gesù va oltre e punta dritto lo sguardo verso il paralitico: «ti dico: Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua!» (Mc 2,11). Sorprende questo tipo di congedo – anche se vi sia- mo abituati da altri episodi del ge- nere – col quale Gesù non chiama

il guarito a seguirlo, ma lo rimanda a casa, dai suoi, finalmente libero da quello stigma che lo escludeva anche dalla più ampia comunità.

Uno sguardo che cambia tutti

Ci si può ammalare, si posso- no ammalare gli altri. Due diversi modi segnano il confine tra salute e malattia. Altro è ciò che riguarda se stessi, altro quel che riguarda gli altri, ma in comune vi è la mede- sima prospettiva: il radicale cam- biamento di sguardo. La visione del mondo si trasforma, quando da sani ci si scopre malati. La malattia sembra definire tutto l’orizzonte e persino l’identi-
tà della persona: non si perce- pisce più come libera, ormai
è “malata”. Benché nella vi-
ta avvengano alcuni passaggi fondamentali, nessuno di es-
si pare assomigliargli. Il primo giorno di scuola, il primo giorno al lavoro, il matrimonio, il primo figlio, il licenziamento, la separa- zione… svolte decisive, ma non abbastanza da essere paragonate all’ammalarsi. Il futuro incerto si colora di scuro, la novità è minac- ciosa, ciò che non dipende da sé adesso riguarda tutto di sé. Poi si ammalano gli altri, le persone ca- re. Sorge un’improvvisa distanza,

come se il desiderio di soccorre- re, di farsi prossimi al dolore altrui, venisse frenato dall’impulso ad al- lontanarsi: sei in una condizionediversa, che mi fa paura, per te, per me. Mi avvicino, mi prendo cura, ma ti sento e mi sento lontano.

Forse è proprio lo squilibrio che accade nel corpo e si riflette nel proprio intimo – sia quando ci si ammala, sia quando si amma- lano gli altri – a suggerire impro- priamente quella visione cara ad alcune religioni, come ad una cer- ta lettura del cristianesimo, che le- ga la pena alla colpa. Per spiega-

La malattia sembra definire tutto l’orizzonte e persino l’identità della persona: non si percepisce più come libera, ormai è “malata”

re l’armonia perduta si ricorre al- la colpa, che ne diviene la causa; per darsi una prospettiva si pen- sa all’espiazione, che deve seguire come effetto. Al centro sta il dolo- re di non avere più libertà e spe- ranza di autodeterminarsi, come se tale libertà fosse divenuta la sorgente del male. Senza entrare nella lotteria di chi ha la fortuna di essere sano e di chi incorre nel

la mala sorte di ammalarsi, Gesù sta in mezzo all’umanità per cam- biare lo sguardo di ognuno, su se stesso, sugli altri, sul mondo. Il suo sguardo d’amore pasquale è l’uni- co che risana, perché fa del dolo- re di ognuno il proprio, con la sin- golare capacità di assumerlo e di portarlo via con sé, spogliando la sofferenza dalla cecità in cui tenta di farci sprofondare.

Se è vero che ciò che in tutti ed in ognuno la malattia genera è il mutamento di sguardo, allora è possibile che sia questo a dover essere trasformato, nei sani come nei malati: nella comunità umana prima ancora che in quella eccle- siale. Mentre al dolore non si può impedire di restare avvolto nel mi- stero, si può consentire all’amore di dischiudere un mistero ancor più grande, l’unico che può dav- vero salvare tutti. Per questa ra- gione, ha senso porre l’accento su una comunità accogliente e perciò sanante – come fa il brano evan- gelico di Marco – che, mentre è ra- dunata nell’ascolto della Parola, fa spazio al malato portato da alcuni al cospetto del Signore, pronta a la- sciarlo andare di nuovo verso la vi- ta sanata dal suo amore misericor- dioso, che tutto ha guarito.

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