
Così comincia il vangelo del cieco nato: “passando, Gesù, vide un uomo cieco dalla nascita”. Non vi sembra strano questo singolare: vide…?
Gesù non era forse con i suoi discepoli? perché è solo lui a vedere? E le persone che stanno intorno a Gesù, i passanti, i giudei, non hanno forse anch’essi occhi per vedere? Perché, dunque, l’unico in grado di vedere sembra essere Gesù?
Qualcuno potrebbe pensare ad un errore grammaticale, io non lo credo, credo anzi che dietro la stranezza di questo singolare ci sia una grande sapienza e che questa sapienza sia al cuore del messaggio che oggi il Vangelo vuole consegnarci.
Cosa dice questa sapienza? Dice che avere occhi sani e perfettamente funzionanti e vedere non sono la stessa cosa. Dice che avere occhi capaci di distinguere con nitidezza l’ago nel pagliaio, per usare un’espressione diffusa, non significa per ciò stesso essere capaci di vedere. I discepoli hanno occhi sani tanto quelli di Gesù, e così i giudei, eppure, ci dice il vangelo, Gesù vede, loro no!
Perché? Perché vedere non è una questione di occhi, ma è una questione di cuore.
Se i discepoli e la folla non sono in grado di vedere non è perché i loro occhi sono chiusi, ma perché è chiuso il loro cuore.
E che cosa chiude il cuore, il loro cuore, come anche il nostro?
Il vangelo del cieco nato ci dice che a chiudere il cuore sono, anzitutto, i dogmatismi e le ideologie che portano illusoriamente a pensare che la realtà non possa essere diversa da come ce l’abbiamo in mente noi e questo senza margine alcuno di errore.
Le cose stanno così, diciamo e tutto ciò che esce dalla nostra “verità”, cioè da ciò che noi riteniamo essere verità, non è verità e come tale non è degno di essere preso in considerazione.
Nel racconto del cieco nato interpreti di questo dogmatismo sono certamente i giudei i quali hanno già deciso che l’uomo cieco è un peccatore perché se così non fosse Dio non l’avrebbe punito con una malattia così grave. Non conoscono nulla del cieco, non conoscono la sua storia, non sono probabilmente mai entrati nemmeno in relazione con lui, sebbene lo incontrino ogni giorno allo stesso angolo di strada, eppure hanno la presunzione di ritenere che egli sia un peccatore. Per fedeltà ad un assioma, non alla verità. A qualcosa che è nella loro mente, non alla realtà!
Quante volte nel testo ritorna l’espressione: noi sappiamo.
Essi sanno e il sapere dà loro diritto ad esprimere un giudizio inappellabile.
Ma questo non è quello che facciamo anche noi quando chiudiamo gli altri nell’angustia del nostro giudizio, quando pensiamo con presunzione che la nostra verità sia l’unica possibile, quando ci mostriamo incapaci di metterci in ascolto degli altri e delle loro ragioni, ritenendo che esse siano pregiudizialmente sbagliate?
Se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che anche noi siamo affetti da questa malattia del cuore che è il dogmatismo. Lo siamo quando facciamo fatica a cambiare idea, quando non riusciamo ad accettare il cambiamento di una persona, quando facciamo fatica a lasciarci mettere in discussione.
C’è poi una seconda malattia del cuore che ci rende incapaci di vedere: ed è la superficialità. È la malattia di chi si ferma all’apparenza, di chi si fida della prima sensazione, di chi si accontenta di un semplice sguardo, pensando che questo sia sufficiente per poter dare un giudizio veritiero sulle persone, sui fatti che accadono e sulle cose.
Mi chiedo se anche questo non sia un male diffuso ai giorni nostri: tutti oggi ritengono di poter esprimere un’opinione autorevole su qualsiasi cosa, di poter avere voce in capitolo anche sulle questioni più complesse, ma spesso le competenze sono approssimative e i giudizi sommari. E non potrebbe essere che così perché per vedere bene bisogna saper andare in profondità, bisogna aver gusto per le sfumature, bisogna saper abitare la complessità e, soprattutto, bisogna avere la pazienza dell’ascolto.
Arriviamo infine alla terza malattia: quella della convenienza e dell’opportunismo che ci porta a vedere non ciò che è, ma ciò che è comodo vedere, non ciò che è sotto i nostri occhi ma ciò che conviene vedere per la pace nostra e di tutti.
I genitori del cieco nato di fronte alle intimidazioni dei Giudei si pongono sulle difensive: capiscono che difendere la verità ha un prezzo e che questo prezzo a volte è assai alto. Per questo si tirano indietro. Preferiscono non vedere o, meglio, preferiscono vedere quel che vedono tutti per non dover portare sulle proprie spalle la responsabilità di una testimonianza scomoda.
Forse non ce ne rendiamo conto, forse non lo facciamo neppure con consapevolezza, ma anche noi facciamo lo stesso. Pensate a tutte le volte che, anziché interrogare la realtà, anziché andare in profondità, anziché rimanere in ascolto della complessità, ci allineiamo al vedere comune, facendolo nostro anche quando si ha chiara la percezione che esso sia ingiusto e fuorviante.
Gesù non lo fa, Gesù non si allinea al parere degli altri a costo di sembrare trasgressivo, Gesù non si ferma all’apparenza e neppure si lascia intrappolare nelle maglie fitte di un dogmatismo che toglie il respiro.
Per questo Gesù è l’unico personaggio del racconto che si mostra capace di vedere. Gesù vede bene perché il suo cuore è pieno di compassione e di amore. È l’amore a rendere i suoi occhi capaci di vedere e l’amore, noi lo sappiamo, non si accontenta mai della superficie, non si ferma mai all’apparenza: l’amore cerca il cuore perché è il cuore il luogo in cui è custodito il mistero di ciascuno. L’amore rifugge sempre il dogmatismo perché non vive di teorie assolute, ma di relazioni in continuo divenire, relazioni fatte di ascolti e di parole. L’amore non si pone neanche mai sulle difensive perché ciò che gli sta a cuore è l’altro, non se stesso.
Basterebbe lasciarsi illuminare dalla luce di questo sguardo pieno di amore e di compassione di Gesù per diventare anche noi capaci di vedere.
Il cieco nato ci riesce e perciò gli si aprono gli occhi, nonostante la sua cecità. I giudei no! Sono troppo sicuri della loro capacità di vedere…
Noi da che parte vogliamo stare?