L’idolatria ha cambiato volto…

Omelia del 13 dicembre 2020 (Gv 1, 19-27a. 15c. 27b-28)

L’idolatria ha cambiato volto…

Spesso si sente dire che il nostro tempo è un tempo che corre velocemente. Ed è vero. Il nostro è un tempo dove tutto si trasforma rapidamente, dove ciò che vale oggi non è detto che valga ancora domani, dove le cose cambiano di aspetto in continuazione.  Ebbene, anche l’idolatria, in questo nostro tempo ha cambiato il suo aspetto.

Una volta aveva il volto di Prometeo. 

Ve lo ricordate Prometeo: è il mortale che, secondo il mito greco, ha osato l’impresa di sfidare gli dei. Una volta l’idolatria aveva il suo volto: il volto arrogante e presuntuoso dell’uomo che cerca di mettersi al posto di Dio; dell’uomo che, in nome della propria libertà e della propria intelligenza, coltiva l’ambizioso progetto di scalzare Dio dal suo trono, sostituendosi a lui.

Quel volto però non è più di moda, anzi, è diventato scomodo… Sarà che ci siamo accorti di non essere all’altezza dell’impresa: essere Dio è una incombenza non da poco. Sarà che ci siamo resi conto che sfidare Dio ha alla fine solo costi e nessun beneficio. Sarà che oggi Dio è diventato talmente insignificante che essere come lui di onore ce ne procura ben poco.  Certo, ai tempi di Prometeo poteva avere un senso: Dio era amato e riverito, il suo potere era indiscusso e insidiare il suo trono voleva dire appropriarsi di questo suo potere per esercitarlo sugli altri. Oggi sono altri che detengono il potere…

Per questo motivo oggi l’idolatria non ha più il volto di Prometeo. E non ha nemmeno più il volto di Dioniso. Immagino lo conosciate: è il Dio dell’ebbrezza, il Dio delle passioni forti, il Dio dei piaceri spinti al limite del possibile. 

C’è stato un tempo in cui eravamo sedotti da ciò che era trasgressivo, dal bisogno di appagare i sensi attraverso la ricerca di emozioni forti, dalla possibilità di collezionare attimi di piacere nei quali perdersi senza ripensamenti, ma non è più quel tempo. Anche il volto di Dioniso è ormai diventato desueto e come tale inservibile. 

E lo stesso vale per Narciso: lui pure, giunto ai giorni nostri, deve cedere il passo, suo malgrado, e con lui il fascino della bellezza, il culto dell’apparenza, l’eccitazione del rispecchiamento. Prometeo, Dioniso, Narciso: tutte maschere che l’idolatria ha indossato nel corso della sua storia millenaria, e che ora troviamo dismesse nello scantinato di un robivecchi.

Ora, nel mentre diciamo queste cose, una domanda si fa sempre più insistente: che volto ha oggi l’idolatria?

Non ha nulla della ribellione che anima Prometeo: è troppo dispendiosa e il rapporto tra l’investimento e i risultati non sempre è conveniente, anzi, ad essere sinceri, non lo è quasi mai. L’idolatria oggi non ha nulla dell’impeto e della trasgressività che accompagnano il programma di Dioniso. Abbiamo infatti capito che non c’è nessuna convenienza e nessuna saggezza nel consumare la vita in esperienze che durano un istante e lasciano poi l’amaro in bocca.

Non ha nulla nemmeno dell’eccitazione di Narciso: difatti, la bellezza non è di tutti e, a nostre spese, abbiamo imparato che la bellezza può diventare un’ossessione e una condanna che rendono infelice la vita. L’idolatria dei tempi nostri è un’idolatria discreta, equilibrata, non intermittente. Il suo volto è quello di un “io” minimo che non ama le ribalte, che non predilige gli eccessi, ma che, tuttavia, non rinuncia al controllo su di sé, non rinuncia al dominio del proprio territorio, non rinuncia alle proprie sicurezze e alla salvaguardia del proprio piccolo castello. 

Non amiamo i grandi palcoscenici e decliniamo volentieri i ruoli di prestigio, ma ci piace essere padroni della nostra vita, forti dentro le nostre sicurezze che niente e nessuno potrà mai scalfire. Ci piace essere produttivi, funzionanti, efficienti nel perseguire i nostri obiettivi, obiettivi minimi, certo, alla nostra portata, ma in nessun modo sacrificabili. E passiamo la vita assillati dall’ansia di doverli realizzare questi obiettivi, quasi fossero l’unico modo che abbiamo per realizzare noi stessi. 

La nostra idolatria oggi non è la presunzione di conoscere le leggi che governano l’universo, ma la convinzione che su ciò che ci riguarda nessuno può permettersi di contraddirci, la convinzione che le nostre opinioni sono inviolabili e così la nostra libertà di dire, di pensare, di agire, di credere.

È con questo volto che oggi si presenta l’idolatria e questo suo volto, apparentemente dimesso, la rende ancor più pericolosa e infida di quanto non fosse un tempo, perché la rende invisibile. Non ci accorgeremmo neppure della sua presenza, se non ci fossero ad accompagnarla alcuni effetti negativi, questi sì riconoscibili.

Quali sono? 

Il primo è l’incapacità di aprirsi alla novità, l’incapacità di addomesticare la visione di un futuro che non si sviluppa secondo le previsioni, l’incapacità, potremmo anche dire, di aprirsi all’azione di Dio, visto che il rinnovamento, la trasformazione, l’inaspettato, ci dice oggi la Scrittura, sono una prerogativa di Dio. Quando Dio agisce, ci dice la Scrittura, accade sempre qualcosa di nuovo e di inaspettato. 

Prendete la bellissima immagine del ceppo senza vita di cui parla oggi Isaia nella sua profezia: da quel ceppo tagliato e senza vita nascerà un virgulto. Dalla discendenza di Iesse, dal ceppo spezzato della discendenza di Davide prende vita un nuovo germoglio che darà speranza ad un intero popolo. La storia non è finita, non è chiusa perché Dio con il suo vento di creazione, con il suo il suo respiro di vita, saprà generare vita anche là dove regna la morte, generare speranza di futuro anche là dove regna la disperazione, aprire strade anche là dove il cammino sembra precluso.

Questa è la visione che oggi Isaia ci consegna e noi avvertiamo la grandezza di questa visione, ma anche paradossalmente la sua difficoltà. Per chi come noi, infatti, non è immune all’idolatria, accettare la novità non è facile, soprattutto se essa ci obbliga a metterci in discussione, ci chiede di lasciare il controllo del nostro mondo e, ancor più, ci domanda di lasciarci trasformare profondamente.

Concludo portando alla luce un ultimo effetto negativo che il cedere alla tentazione dell’idolatria porta con sé. È l’incapacità di accogliere l’altro. Quell’altro che si manifesta con la sua presenza fisica, con la sua parola, con le sue idee. E si capisce il perché. Quando si è concentrati unicamente su di sé, quando si è preoccupati di difendere i propri muri dall’intrusione di corpi estranei, quando si è ossessionati dall’idea di dover preservare il proprio spazio perché non sia di nessun altro, non può esserci posto per l’altro e non può esserci posto per la relazione. L’altro è un intruso, un nemico da cui difendersi, un rivale da contrastare.

Ma se non fosse così? Se l’altro non fosse un intruso ma un dono? Se l’altro non fosse un nemico ma una grazia da accogliere? E l’accoglienza fosse il modo con cui possiamo davvero crescere e realizzare noi stessi? Prendete Giovanni, il battista: pensate che avrebbe accettato di essere voce di Gesù se non avesse riconosciuto in lui l’unica vera possibilità di essere se stesso? “Chi sei tu?”, gli chiedono. “Io sono voce di uno che grida nel deserto”, risponde. Io sono voce…

Non c’è altro antidoto contro l’idolatria che ci affligge.

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