
Il Natale ha una sua magia, non c’è dubbio. E questa sua magia consiste nella concomitanza di motivi storici, letterari, teologici, che, con incredibile sapienza, il racconto mette insieme regalandoci qualcosa che, oltre ad aprire la nostra mente ad un’inaspettata verità, crea in noi emozioni profonde, eccita i nostri sensi e tocca, facendole vibrare, le corde del nostro cuore.
Certo il Natale è la nascita del Figlio di Dio nella nostra storia – questo è il suo senso -, ma come potremmo descrivere questa nascita in modo altrettanto evocativo ed efficace, se dovessimo fare a meno della tenerezza che contempliamo nel volto di Gesù bambino?
Come potremmo descrivere questa nascita se dovessimo fare a meno dei cori degli angeli che riempiono di gioia il silenzio della notte? O dello sguardo stupefatto e impaurito di Maria e Giuseppe e della loro percezione di essere parte di qualcosa di grandioso e insieme inspiegabile?
Come potremmo descrivere la nascita del Figlio di Dio senza la corsa notturna dei pastori, senza il viaggio dei magi, senza quel persistere della notte che ci avverte della portata di speranza che quest’evento ha in serbo per l’umanità intera?
E poi c’è quell’altra immagine, bellissima, che anche oggi abbiamo sentito evocare nella lettura del libro del Siracide: l’immagine della tenda. È un’immagine certo ed è un’immagine povera, ordinaria per i tempi in cui furono scritti questi testi, un’immagine che ci porta nel deserto, che ci aggrega alle rotte dei beduini nelle loro traversate tra polvere e sabbia.
È un’immagine certo, semplicemente un’immagine, eppure nessuna immagine è più efficace di questa per parlarci di quello che è il mistero del Natale, ovvero il mistero di un Dio che ha preferito la mobilità del tempo all’immobilità della sua dimora eterna, di un Dio che ha deciso di abitare il bisogno dell’uomo, la sua mancanza, rinunciando ai suoi privilegi, di un Dio che ha scelto la convivenza, la prossimità, l’ospitalità, facendosi lui stesso bisognoso dell’uomo e della sua amicizia.
Questi motivi non sono ornamentali, non sono l’effetto di una stratificazione di tradizioni accumulatesi nel tempo e di cui potremmo anche liberarci. Questi motivi sono il Natale, ne rappresentano la consistenza. E se, per un eccesso di pragmatismo o per una qualche volontà di semplificazione, volessimo liberarcene, rischieremmo di lasciar svanire con essi non solo la magia del Natale, ma il Natale stesso.
Quello che dobbiamo fare, dunque, non è cancellare la magia del Natale, ma evitare di indugiare troppo sulla sua dimensione emozionale, mancando di cercare che cosa si celi dietro tale magia e mancando, dunque, di approdare a quel mistero insondabile e insieme terribilmente concreto che è il mistero dell’incarnazione di Dio.
Oggi Gesù ci mette in guardia da questa tentazione e, attraverso il gesto che compie nella sinagoga di Nazareth e le parole che prende a prestito dal profeta Isaia e fa sue, ci invita a riflettere seriamente sul mistero dell’incarnazione e sulle sue implicazioni.
Che cosa si cela dietro il mistero di un Dio che si fa uomo, di un Dio che nasce di notte, di un Dio che decide di piantare una tenda accanto alle nostre, di un Dio che sceglie di rivelarsi ai pastori con il volto di un bimbo avvolto in fasce?
Anzitutto, dietro a tale mistero si cela, ci dice Gesù, un Dio che vuole far irruzione nella quotidianità. Una quotidianità che qui ha le coordinate di un luogo geografico, Nazareth, il luogo a Gesù più famigliare, quello in cui è cresciuto. E ha le coordinate di un momento liturgico, quello che della liturgia del sabato, che da sempre scandisce la sua vita religiosa così come scandisce la vita religiosa di ogni israelita. Nulla di straordinario, dunque, così come nulla di straordinario e di inconsueto c’è nella notte che ha ospitato la nascita del figlio di Dio.
Eppure – questo è il mistero dell’incarnazione – quella notte uguale a tante altre è diventata grembo della vita di Dio; e quella sinagoga di Nazareth con la liturgia con la sua liturgia che si ripete ogni sabato sempre uguale diventa luogo della presenza dell’Eterno.
Dio non ama il clamore, non ama le ribalte, non ama l’eccezionalità delle feste programmate. Dio ama la quotidianità ed è li, nella quotidianità, che chiede di entrare e diventare decisivo, lì chiede di poter lasciare la sua impronta…
Mi chiedo: quanto siamo capaci di lasciar entrare Dio nella nostra quotidianità? Quanto siamo capaci di lasciarlo entrare negli automatismi che decidono della nostra vita, consentendogli di trasformarla e di portare qualcosa di nuovo e straordinario in ciò che si ripete sempre uguale?
Quanto siamo disposti a fargli posto nella nostra vita e quanto siamo disposti a lasciar sedimentare nel nostro cuore, perché pian piano diventi parte di noi, la rivelazione di un Dio che si offre al mondo come fermento di giustizia, di liberazione, di pace e di riscatto?
Anche questo, infatti, si cela dietro il mistero dell’incarnazione portato alla luce delle parole di Gesù.
“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, dice, “a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; sono venuto a rimettere in libertà gli oppressi e a proclamare l’anno di grazia del Signore”.
Non c’è nessuna volontà di rivalsa dietro l’incarnazione di Dio, nessuna volontà di dominio o di autoglorificazione, solo il desiderio, incontenibile, di restituire l’umanità alla pienezza d’amore che l’ha generata.
Di questo noi, che abbiamo conosciuto la magia del Natale, siamo testimoni. E lo siamo non solo a parole, ma anche con la vita…