
Il giardino è simbolo antico. Più che un’immagine, più che un ambiente, esso è una traiettoria: traiettoria di sensi, traiettoria di mente e di cuore che attraversa da cima a fondo tutta la rivelazione biblica.
E dovunque transiti, qualsiasi cosa tocchi, parla di amore.
Parla di amore quando fa la sua comparsa sulla scena del mondo, all’inizio del tempo, e ospita lo stupore del primo uomo e della prima donna, quando entrambi si scoprono l’uno di fronte all’altra.
Parla di amore quando, al cuore della scrittura biblica, nel grande affresco del Cantico dei Cantici, è teatro di una alleanza nuziale nella quale Dio stesso inscrive, contro ogni evidenza, il paradosso della sua relazione con l’uomo.
Parla di amore quando torna alla fine dei tempi – siamo al libro dell’Apocalisse – a circoscrivere la Gerusalemme celeste come il luogo in cui lo sposo attende trepidante la sposa per abitare con lei l’eternità.
Anche nel racconto di questa sera di Pasqua si fa menzione di un giardino e anche questa sera il giardino parla dell’amore.
Anzi parla di due amori, che si sfiorano – e si ricompongono – nell’unica esperienza di un incontro che ha cambiato la storia.
Il primo amore è quello di Maria di Magdala: è un amore dominato dal desiderio della presenza dell’amato e dal bisogno di toccarne il corpo.
L’esperienza della croce nella quale ella ha visto morire il suo Signore ha scavato dentro di lei un vuoto profondo, costringendola ad aggrapparsi alla traccia flebile di un ricordo, con la speranza che tale ricordo potesse tener vivo dentro di lei, nel tempo a venire, il legame con chi le aveva toccato il cuore e salvato la vita.
E ora che ce l’ha lì, davanti agli occhi, ora che può di nuovo ascoltare la sua voce, ora che può di nuovo toccare la sua carne, un‘unica cosa desidera fare: stringersi a lui, trattenerlo, afferrarlo perché nessuno possa più portarglielo via.
Ma se il suo amore è invocazione di una presenza, quello di Gesù è annuncio di una partenza: “non mi trattenere perché non sono ancora salito al Padre”.
C’è una distanza da custodire, c’è una libertà da rispettare, c’è un’autonomia da guadagnare.
Senza di questo, dice Gesù, l’amore non è realmente possibile!
Sono possibili le sue contraffazioni: quelle che portano a confondere l’amore con il possesso che annulla la trascendenza dell’altro, quelle che portano a scambiare l’affetto con la gratificazione emotiva che assolutizza il desiderio, quelle che confondono la presenza con la dipendenza che azzera la libertà.
Ma nessuna di queste cose è l’amore.
Se vuole imparare ad amare Maria deve accettare di lasciar andare il proprio amato, senza opporre resistenza, senza rivendicare nessun diritto, senza imporre alcuna volontà. Non mi trattenere …
Perché l’amato è un dono: non qualcosa da possedere, ma qualcosa che si riceve e bisogna donare a propria volta.
Questo deve imparare, Maria di Magdala, nel giardino della resurrezione, all’alba del nuovo giorno: che l’amore se vuol essere autentico dev’essere esperienza dell’altro come dono.
E se così dev’essere l’amore, dev’essere anche esperienza della meraviglia e dello stupore!
Sempre, il giardino, nella tradizione biblica, è luogo di meraviglie che chiamano in causa lo stupore. Pensate allo stupore di Adamo che apre gli occhi sulla meraviglia della creazione. Pensate ancora allo stupore di Adamo quando riconosce nella donna che Dio le ha posto accanto l’osso delle sue ossa, la carne della sua carne.
Pensate allo stupore degli innamorati del Cantico dei Cantici che con sguardo trasfigurato contemplano la bellezza del loro amore.
In ciascuno di questi momenti del racconto biblico lo stupore è la reazione che si ha quando ci si trova di fronte a qualcosa di inaspettato.
Anche qui è lo stesso.
Maria deve capire che il Gesù che ha davanti è altro rispetto a quel che ella ha in mente: c’è in lui qualcosa di radicalmente nuovo.
Qualcosa che può essere accolto e riconosciuto solo da chi ha il coraggio di prendere distanza dal proprio passato per transitare sul terreno inesplorato del cambiamento.
Maria deve imparare a riconoscere nell’uomo che ha davanti a sé non la restituzione di qualcosa che già le appartiene, ma qualcosa di inaspettato, di imprevisto, di eccedente rispetto ad ogni suo desiderio.
Qualcosa che ti spinge fuori da te e ti spinge in avanti. Sempre!
Lo stupore e la meraviglia, però, non sono le uniche cose che caratterizzano l’amore come esperienza del dono.
L’amore è esperienza dell’altro come dono se è espropriazione di sé.
Il dono non è mai, infatti, frutto della necessità, non sarebbe un dono.
Il dono è sempre rimando a colui che dona, alla sua libertà, alla sua intenzionalità, alla sua bontà.
È quella del donatore la figura che prende vita dietro il dono, sue le uniche ragioni che contano. È lui che detta i tempi, lui che decide i modi.
Amare significa decidere di fargli spazio, accettare di mettere da parte la presunzione che spinge a voler essere il tutto, accettare di non acconsentire alla bramosia di cui si resero colpevoli il primo uomo e la prima donna, nell’altro giardino, quello di Eden.
Maria di Magdala deve far spazio a Gesù, deve lasciarlo libero di essere ciò che è, deve accettare che qualcosa gli sfugga del suo mistero e che la sua presenza diventi talvolta inafferrabile come l’assenza.
E soprattutto deve accettare di condividerlo con gli altri, con i suoi fratelli e con le sue sorelle, perché un dono non è dato perché ce ne si impossessi, ma perché sia reso disponibile a tutti.
La vera relazione è “nelle mani aperte” che lasciano andare e che si fanno strumento di condivisione. Le nostre mani come sono?