
Sono tante le parole che affollano queste ore di patimento e di tormento. Le ore del tuo supplizio e del tuo tormento, Signore.
Ci sono le parole gridate della folla che invoca l’estremo supplizio, le parole ingiuriose e ingannevoli dei sacerdoti che deliberano la tua condanna, le parole beffarde dei passanti che ti invitano a scendere dalla croce e quelle sprezzanti dei soldati che sfogano su di te la loro frustrazione.
E. infine, ci sono le parole dei due malfattori, fratelli di sangue e di condanna, a tormentarti, persino lì sulla croce, quando è più prossima la morte
Sono molte, Signore, le parole che si affollano in queste ore di pena e di dolore, ma sono tutte parole di altri, tue parole non ce ne sono!
Tu, Signore, nell’ora estrema, quella del compimento, quella dell’amore fino alla fine, rimani muto.
La tua è una rivelazione silenziosa.
E lasciacelo dire, Signore: questo tuo silenzio ci pesa!
Ci pesa questo tuo silenzio sull’ingiustizia che colpisce impunemente il giusto. Così come ci pesa il tuo silenzio sull’orrore delle città devastate, sulle stragi che annientano intere popolazioni, sull’odio che mortifica la vita, sulla solitudine che si deposita sull’umanità rendendola incapace di speranza.
Di una tua parola quel giorno noi avremmo avuto bisogno…
E ancora ne abbiamo bisogno quando la storia ci rende tristi spettatori del sopruso e della desolazione.
Naturalmente quella che cerchiamo non è una parola di condanna o di riprovazione: sappiamo bene che non è tuo stile condannare o recriminare.
Nemmeno ci saremmo aspettati una parola risolutiva, una parola che invertisse il corso degli eventi, che ricomponesse, di forza, l’apparente disarmonia: sappiamo quanto è sacra per te la nostra libertà.
Ci sarebbe bastata una parola di consolazione che ci avesse aiutato a superare la prova, una parola che ci avesse dato forza, che ci avesse invitato a resistere, a non cedere allo sconforto.
Ci sarebbe bastata una parola di speranza, che fosse capace di orientare il nostro sguardo oltre il dramma immanente. Una parola che ci avesse detto: “adesso c’è da soffrire, ma la sofferenza finisce e lascia il passo alla gioia …”
Una parola che ci avesse aiutato a capire, a dare un senso a ciò che appare incomprensibile, a dirci che tutto quanto accade fa parte di un progetto, ha una spiegazione, che c’è una ragione alla quale aggrapparsi.
E invece nessuna parola ci è concessa, oggi, Signore.
Solo un grido soffocato che nulla spiega, nulla consola, e nulla concede alla speranza: Dio mio perché mi hai abbandonato…
Perché Signore, rimani muto?
Non è la tua parola che ha creato il mondo? Non è la tua parola che ha rivelato il volto del padre? Non è la tua parola che hai sanato i malati, consolato gli afflitti, riscattato i peccatori?
Perché ora questo silenzio?
Perché c’è un momento nella rivelazione di Dio, ed è questo il momento, in cui la parola deve lasciare posto alla figura.
C’è un momento nel dinamismo della rivelazione in cui non bisogna ascoltare, ma guardare!
La croce, ci dice l’evangelista Luca, non è una parola da spiegare, ma una “theoria”, uno spettacolo, qualcosa che si guarda, qualcosa che si apre davanti agli occhi con l’irruenza e il realismo di una visione, che non ammette alcuna anticipazione o mediazione di parola.
Fu così anche ai tempi di Isaia con la figura del servo sofferente.
Anche lì ci si trovò di fronte non ad una parola da ascoltare, ma ad una figura da guardare, una figura di fronte alla quale sgranare gli occhi, per quanto orribile sia la visione che essa porta con sè.
Mosè lo puoi ascoltare perché ha una parola da dire, i profeti li puoi ascoltare perché hanno una parola da dire, il servo sofferente no.
Il servo non parla, non ha parole da dire. Il servo rivela attraverso la propria figura. Questa è la sua prerogativa.
Ed è qui che il destino del servo sofferente di Isaia e il destino di Gesù si incontrano e si sovrappongono.
Entrambi sono testimoni di una rivelazione che nel suo protendersi più estremo, manda in esilio la parola per affidarsi alla forza di una visione, di una visione che si impone allo sguardo.
E noi siamo qui, questa sera per chiederti: perché, Signore?
Perché nel momento in cui la rivelazione giunge al suo apice, nel momento in cui più avremmo bisogno di una parola che ci spieghi, che ci rischiari, che ci assista, che ci faccia capire capire, tu decidi di affidarti all’evidenza travolgente e incerta, allo stesso tempo, di un’immagine?
Perché c’è bisogno, Signore, che la tua morte ci sbatta contro con tutto il suo orrore, con tutta la sua ferocia, con tutta la sua incontenibile protervia.
Le parole, quando ci sono, contestualizzano, stemperano, concettualizzano, e così si finisce per abituare gli occhi persino alla visione più spaventosa e si finisce per addomesticare perfino l’angoscia più insopportabile.
Non qui.
Qui, Signore, ci chiedi di lasciare che la tua morte travolga i nostri sensi, penetri la nostra carne così da prendere coscienza di quanto sia profondo l’abisso di peccato, di miseria, di malvagità, di disumanità cui noi possiamo arrivare se lasciati a noi stessi.
Questa tua croce è un punto di non ritorno, è un cammino a ritroso che percorre all’indietro i passi della creazione, fino a giungere al buio impenetrabile e senza vita di un in-principio non ancora visitato dalla luce della parola divina. Si fece buio su tutta la terra …
Di fronte alla croce tu ci poni di fronte al nostro buio, e al cospetto di esso non può esserci nessuna consolazione, per questo la parola è bandita.
Nessuna speranza, nessuna feritoia di luce: solo la visione terrificante di dove porta la fine, se non si ha il coraggio di sottrarre se stessi all’inerzia mortifera dell’egoismo e della bramosia.
La tua croce, però, Signore, non ci mette solo di fronte all’orrore della perdizione e del buio che divora inesorabile le nostre vite. Ci mette anche di fronte all’infinita distanza di Dio …
A sbatterci addosso quando ti vediamo sulla croce, appeso al legno della maledizione, non è solo la coscienza del nostro buio, ma anche il paradosso di una Divinità che eccede ogni nostro tentativo di comprensione e confonde ogni nostro sforzo di previsione.
Il tuo consegnarti alla morte, il tuo lasciarti tradire, la tua ostinazione nell’amore, la potenza della tua misericordia, che sovverte i parametri della nostra giustizia, ti rendono un Dio totalmente altro, un Dio che non può essere nè anticipato, nè compreso.
Un Dio di fronte al quale ci si copre la faccia…
Coprirsi la faccia è un’espressione di Isaia.
Egli la usa per indicare l’orrore che si prova guardando colui che non ha apparenza, né bellezza, il servo sofferente, e anche noi l’abbiamo usata per indicare l’orrore che dobbiamo provare quando guardiamo la croce di Gesù. Ma questa espressione la si trova nella Bibbia ad indicare anche la riverenza e il timore che si devono a Dio.
Davanti a Dio ci si deve coprire il volto così da evitare che il nostro sguardo possa violarne il mistero.
Anche noi, Signore, questa sera, ci copriamo la faccia davanti alla tua croce, perché in questo tuo ostinato e tenace volerci amare sino alla fine noi sappiamo di essere di fronte al mistero indicibile di Dio, e, insieme, all’inconciliabile differenza tra te e noi.
Ma sappiamo anche che solo dalla presa in carico di questa impossibile conciliazione che ti riconsegna alla tua infinita distanza da noi, sarà possibile una nuova relazione, una nuova parola, una nuova alleanza.
E come accadde in principio, questa parola sarà l’inizio di una nuova creazione.
È bellissima l’immagine consegnataci dai vangeli di questo Gesù che morendo emette il suo ultimo respiro.
Nel vangelo di Giovani l’espressione è ancor più evidente: “consegnò lo Spirito…”. Come in principio un filo d’aria diventò parola, dando vita alle cose, così qui lo Spirito di Gesù, segno dell’irriducibile differenza di Dio, diventa principio di una nuova creazione.
Solo nella coerenza con cui tu, Gesù, sei rimasto fedele all’amore che rivela l’assoluto di Dio, noi potremo ritrovare la verità di ciò che siamo e insieme con essa la vita…