
L’impatto con il sepolcro vuoto è sempre motivo di profondo turbamento per le donne che, il mattino di Pasqua, si recano da Gesù con l’intenzione di onorare il suo corpo.
Tutti gli evangelisti convergono su questo punto.
Va detto però, che il turbamento, nel vangelo di Luca, è accentuato in modo del tutto particolare. Negli altri vangeli, infatti, la scoperta del sepolcro vuoto e la presa di coscienza dell’assenza del corpo di Gesù sono in qualche modo accompagnate, sono in qualche modo assistite: da una rivelazione dall’alto, da una presenza angeli, da una parola di rassicurazione. Qui no.
Sono le donne ad entrare nel sepolcro e a constatare che esso è vuoto: nessuno le assiste, nessuno le accompagna, nessuno le introduce. Le apparizioni degli angeli ci saranno anche per loro, ma dopo. Per intanto sono sole ad affrontare l’irresistibile desolazione di quella tragica mancanza.
Direte che è una differenza da poco, ma non è così.
Quando c’è una rivelazione uno può sempre pensare che ci sia un disegno dietro gli eventi, per quanto tragici essi siano; quando c’è una parola di conforto uno ha l’impressione, e non è solo un’impressione, che la prova sia più facilmente superabile.
Ma se non c’è niente, se si è lasciati soli, se non c’è un appiglio a cui aggrapparsi, voi capite, superare la prova diventa impresa ardua.
Per questo le donne sprofondano nell’”aporia”.
Uso questa parola di proposito perché è quella che usa Luca.
Nella traduzione italiana del vangelo si dice che le donne, di fronte alla visione del sepolcro vuoto, si domandavano che senso avesse tutto questo, ma questa traduzione oltre ad essere oltremodo mitigata, non rende ragione della situazione in cui le donne realmente si trovano. Luca dice che le donne si trovano nell’aporia.
Che cosa vuol dire?
“Aporia” letteralmente significa: impossibilità a proseguire il cammino, impossibilità di andare avanti. E anche nella nostra lingua ha lo stesso significato: quando noi parliamo di aporia parliamo di una situazione senza via d’uscita, di un problema senza soluzione, di un pensiero che entra in contraddizione con se stesso e non ammette ulteriori sviluppi.
Quindi dire che le donne che accorrono al sepolcro e lo trovano vuoto sono nell’aporia significa dire che esse senza Gesù sentono che la loro vita è una strada senza via d’uscita, un groviglio di fili che rimane insolubile.
Senza Gesù non possono andare avanti, le loro certezze crollano, la loro vita perde il suo senso, il futuro si chiude loro davanti.
Ma la domanda è: in che modo la presenza o l’assenza di un corpo morto può fare la differenza tra una vita piena di futuro e una vita senza via d’uscita?
Un corpo morto non è un corpo assente? La presenza di un corpo morto non è essa stessa assenza?
E se le cose stanno così, e stanno così, perché le donne accorse al sepolcro rimangono così turbate nel vedere il sepolcro vuoto, turbate al punto che la loro stessa vita perde a quel punto di significato?
Forse perché, ci suggerisce con grande sapienza l’evangelista Luca, se c’è un’aporia questa non è in una vita che sia costretta a fare a meno del corpo di Gesù, ma nella loro stessa fede e nell’affetto che esse nutrono per colui che hanno perso.
C’è qualcosa di sbagliato nel loro modo di rapportarti a Gesù e le parole delle figure angeliche che, d’improvviso, fanno la loro comparsa nella scena, lo dicono con assoluta evidenza: perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Le donne hanno cercato intensamente Gesù, ma lo hanno cercato in un corpo morto in una presenza senza vita, in un simulacro. Provano affetto sincero per lui, ma non lo provano per Gesù, lo provano per l’idea che si sono fatti di lui e che si è stampata nella loro mente, per la gratificazione emotiva che la sua presenza suscita dentro di loro cuore, per l’immagine di lui che è impressa nella loro memoria.
La loro è una fede che guarda indietro, che vive di nostalgia che attinge dal passato.
C’è un suggestivo gioco linguistico nel greco che esplicita questo: “mnema” è il termine che Luca utilizza per indicare il sepolcro ma “mnema” è anche la radice del verbo “ricordare”.
Fino a che le donne continueranno ad attingerà dalla loro memoria e rimarranno prigioniere della loro memoria, continueranno a venerare un corpo morto, un sepolcro vuoto.
Se desiderano realmente incontrare il Signore e godere della sua presenza dovranno smetterla di cercarlo tra i morti e cercarlo tra i viventi.
Ovvero: dovranno voltare lo sguardo dal passato al presente, dovranno abbandonare le immagini rassicuranti dentro a cui hanno cristallizzato fino a quel momento la presenza di Gesù per accoglierlo così come egli si rivela nell’oggi della loro vita.
E in che modo lo potranno fare?
Lasciandosi interpellare dalla sua parola.
È la parola a fare la differenza tra una fede senza via d’uscita e una fede autentica. Non è un caso che l’Angelo le inviti a porre attenzione alle parole che egli disse: “se volete ricordare ricordate le parole che vi ha detto”.
È la parola a fare la differenza. E lo è perché interpella il presente, perché offrendosi all’interpretazione di chi la riceva si propone come sempre continuamente nuova, perché suscitando una risposta apre alla relazione.
La parola non perde il riferimento al passato, abita la memoria, ma non si chiude in essa come fosse un sepolcro: in lei il passato si apre al presente e al futuro.
“Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri”.
Per le donne del vangelo la resurrezione di Gesù è l’invito ad entrare in una nuova azione con Gesù, una relazione che accompagni la loro vita, anziché vivere di passato, una relazione che interpelli di continuo la loro coscienza e la loro libertà perché possano testimoniare il Signore vivo e presente nella storia.
Per noi non dovrebbe essere diversamente: siamo pronti ad abbandonare i nostri sepolcri per accogliere colui che è vivo…